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2020-2021: i nostri articoli

POLEMICA SULLA STRAGE DI VISONI:

analisi di una scelta eticamente complessa

Il 4 novembre 2020, in Danimarca, è stato autorizzato l’abbattimento di un numero compreso fra i quindici e i diciassette milioni di visoni, probabilmente affetti da Covid, e contagiosi. Non è stato l’unico caso. Negli ultimi mesi del 2020 in tutta Europa si sono diffusi focolai di coronavirus mutato in allevamenti di visoni destinati alle pellicce. In alcuni allevamenti in Olanda, dopo che il virus era stato trasmesso dagli esseri umani ai visoni tramite zoonosi inversa, il ceppo mutato ha poi infettato alcuni lavoratori dell’allevamento . A quanto pare il mezzo di trasmissione tra gli allevamenti sono stati i gatti randagi, che lo avevano contratto e poi diffuso. 

Cos’è la zoonosi, fenomeno per cui questi avvenimenti si sono verificati? 

La zoonosi è un fenomeno per il quale una malattia passa da una specie animale agli esseri umani e può avvenire per via diretta o indiretta, tramite altri organismi o alimenti. Non è un fenomeno molto comune, ma si prevede che nei prossimi anni andrà aumentando, a causa di vari fattori, primo fra tutti i cambiamenti climatici: molti ambienti naturali, infatti, vengono distrutti, spingendo gli animali ad avvicinarsi ai centri urbani, e, all’inverso, anche gli esseri umani distruggono sempre più habitat, spingendosi nelle zone abitate da animali selvatici. Anche la sovrappopolazione umana è un problema, poiché fa sì che qualsiasi malattia si diffonda molto più in fretta. Ultimo ma non meno importante è il problema degli allevamenti intensivi, da cui sono partite moltissime malattie, anche semplici influenze, che si sono diffuse negli ultimi anni. Per questi motivi ci sono zone del mondo in cui è più probabile che avvengano zoonosi rispetto ad altre: Wuhan, da cui è partita l’epidemia di coronavirus, è una di queste. 

Il virus che ha causato la pandemia è a RNA, che è uno dei tipi che muta più velocemente: questo perché è più frequente che, durante il processo di replicazione, qualcosa cambi e, se il cambiamento si rivela efficace, questa nuova versione del virus inizierà a diffondersi al posto di quella precedente. Evidentemente una di queste varianti aveva caratteristiche che le rendevano particolarmente facile contagiare i visoni. Si è diffusa all’interno di questi allevamenti, dove c’era un’altissima concentrazione di esemplari, e ha iniziato a passare da un esemplare all’altro. Ad ogni passaggio, però, potenzialmente poteva mutare, per cui, all’interno di questi allevamenti, il coronavirus potrebbe essere diventato molto più efficace, perché ha avuto tempo di auto selezionarsi.

 

Il rischio era che, tramite la zoonosi inversa, agli esseri umani tornasse un virus molto diverso da quello precedente, che quindi avrebbe vanificato tutte le ricerche fatte fino a quel momento per i vaccini. Era quindi necessario fermare questa diffusione, per evitare di dover ricominciare le ricerche e gli studi dal principio. 

Molti animalisti si sono chiesti perché non si potessero semplicemente liberare, invece di abbatterli. La prima motivazione è piuttosto ovvia: liberando milioni di animali malati in natura si rischiava di far diffondere il virus in maniera ancora più massiccia, sia tra gli esseri umani che tra altre specie animali. La seconda motivazione è meno scontata. Spesso si pensa che liberare un animale, anche perfettamente sano, in natura sia eticamente la cosa più giusta da fare. Non metto in dubbio che sia così, ma i danni ecologici causati da questa scelta sono enormi: infatti liberando in natura un animale non autoctono può portare all’estinzione di alcune specie locali, alterando così interi ecosistemi. Quindi liberare improvvisamente in natura milioni di visoni, siano questi sani o malati, sarebbe un danno ecologico devastante. 

Inoltre bisogna considerare il fatto che, se non fossero stati abbattuti così, quei visoni sarebbero comunque stati uccisi per usarne le pellicce, e così i loro figli e tutti i loro discendenti. C’è da sperare, sebbene sia quasi un’utopia, che questo episodio serva a dissuadere gli esseri umani dall’allevare animali, allo scopo di ucciderli brutalmente solo per le pellicce, di cui possiamo benissimo fare a meno.

 

Elena Boccagna 
IVE

2021: BILANCIO DI VITE ANCHE NEL MONDO ANIMALE

Antonio Esposito
IA

Circa un mese fa, in data 27 febbraio, è stata celebrata la Giornata Mondiale dell'orso polare. Uno dei mammiferi terrestri più grandi al mondo coi suoi 3 metri di lunghezza e mezza tonnellata di peso, l’orso polare (o Ursus maritimus)  è un animale carnivoro che abita le regioni del polo nord e quelle bagnate dal mare glaciale artico, diventato nel tempo simbolo della crisi climatica e delle specie a rischio di estinzione. Si definiscono “a rischio” quelle specie vegetali o animali che, a causa dell'esiguità della popolazione ed in virtù di sopravvenuti mutamenti nel suo habitat usuale, è in procinto di scomparire; l’estinzione naturale è un fenomeno biologico lento, che vede poi compensare la scomparsa di una specie con la comparsa di una nuova. Non è questo il processo che interessa la specie Ursus maritimus e molte altre che, con l’avvento della rivoluzione industriale, si avviano verso l’estinzione totale per effetto della pressione dell'uomo sull'ecosistema. Uno degli effetti più evidenti e devastanti di questa pressione è il tanto discusso riscaldamento globale che, brevemente, consiste nell'aumento della temperatura media globale in ragione delle emissioni nell'atmosfera terrestre di crescenti quantità di gas serra, dando così origine a fenomeni atmosferici a esso associati come, in questo caso, la scomparsa di ghiacciai e la fusione delle calotte polari. La popolazione canadese di orsi polari infatti ha già subito una riduzione del 30% fra il 1987 e il 2017 e  rischia di ridursi di un ulteriore 30% nei prossimi 30 anni. Ed è infatti stato inserito per questi motivi dall’IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) nella categoria Vulnerabile delle specie minacciate assieme ad altri animali iconici, come lo squalo bianco, il cui decremento di popolazione  in mari sia freddi che caldi, come il mediterraneo, ha visto toccare percentuali molto alte (52%) a causa di attività antropiche quali la sovrapesca, l'occupazione di spazi in mare, alti livelli di inquinamento e surriscaldamento delle acque legato appunto al cambiamento climatico.

 

Da qui parte l’appello di associazioni non governative come il WWF che con iniziative come come quella dell’Earth Hour (evento globale che invita tutti i cittadini del mondo a spegnere le luci per un’ora) rende ognuno partecipe alla lotta contro il riscaldamento climatico. Fondamentali però saranno i rapporti fra uomo e natura, in quanto recenti studi hanno dimostrato una particolare relazione fra animali e regolazione del clima: questi contribuiscono essi stessi a ridurre la quantità di CO2 in atmosfera o facilitando la rigenerazione di foreste e altri organismi in grado di fissare la CO2. Le grandi balene, ad esempio, durante la loro vita accumulano nei loro tessuti in media 33 tonnellate di diossido di carbonio aumentando così la proliferazione di fitoplancton, che non solo contribuisce a fornire almeno il 50% di tutto l’ossigeno dell’atmosfera, ma anche a sequestrare circa 37 miliardi di metri cubi di CO2, circa la quantità di CO2 catturata da 1,7 trilioni di alberi: più o meno l’equivalente di 4 foreste amazzoniche. La presenza di formiche invece accelera  l’assorbimento naturale della CO2 nei suoli, di ben 335 volte rispetto ad ambienti in cui questi insetti sono assenti, mentre alcune specie di volatili, come gli gnu, evitano la crescita eccessiva della vegetazione abbassando così il rischio di incendi. Quindi, come afferma il direttore di WWF Italia Alessandra Prampolini:“È necessario adottare subito soluzioni di collaborazione uomo-natura”, in modo da iniziare a costruire un futuro sostenibile e che tutela l’equilibrio degli ecosistemi.

 

L'AMBIENTALISMO SENZA LOTTA AL CAPITALISMO È GIARDINAGGIO

operare un cambiamento a partire dalle scuole

Mariasole Fusco
3C

Negli ultimi mesi la partecipazione alle manifestazioni lanciate dall’organizzazione Fridays for Future, movimento nato dall’iniziativa dell’ormai celebre attivista svedese Greta Thunberg, ha raggiunto numeri sempre maggiori, facendo presa in particolare sui giovani studenti. Testimonianza fondamentale è data dalla straordinaria affluenza di giovanissimi nelle piazze italiane durante il terzo sciopero globale del 27 settembre, cui hanno preso parte oltre un milione di strikers. L’Italia si è collocata tra i primi tre paesi al mondo per numero di partecipanti, la cui fetta più consistente è costituita dalle nuove generazioni; sono queste, infatti, che si rivolgono ai governi per richiedere azioni concrete contro il cambiamento climatico e l’emergenza ambientale, reclamando a gran voce il proprio diritto al futuro.

Difficile però poter affermare che tale mobilitazione da parte di studenti, preoccupati per il proprio futuro, sia indice di una reale ripresa di coscienza politica da parte dei giovani. Il segnale che arriva da una così ampia adesione alle proteste ambientaliste è paradossalmente quello di un’apoliticità dilagante: il movimento si caratterizza come eterogeneo, riunendo in sé più realtà, senza distinzioni di carattere politico. Quello che visibilmente manca, in molti casi, è una profonda consapevolezza di ciò che concretamente rappresenta l’ambientalismo: una lotta che si configuri in termini strettamente politici e che vada a contestare e contrastare il sistema economico responsabile del cambiamento climatico.

Per favorire lo sviluppo di una nuova coscienza critica che riconosca i limiti della società capitalistica e del consumismo imperversante è necessario ripartire sulle prime dai luoghi di formazione: sono le scuole a dover fornire alla futura classe lavoratrice gli strumenti necessari per costruire una società più giusta ed eco-solidale, operando un rinnovamento in chiave ambientalistica e facendosi promotrici di iniziative volte alla formazione di una mentalità riflessiva, che si interroghi sulle problematiche sociali.

 

Un piccolo passo avanti verso questa direzione è rappresentato dal progetto recentemente approvato dal ministro Fioramonti: si tratta di un programma che prevede l’inserimento, per ogni scuola di ordine e grado, di 33 ore obbligatorie di educazione ambientale all’anno, a partire dal 2020. Come lo stesso ministro ha affermato, l’Italia diverrà la prima nazione al mondo a introdurre un programma obbligatorio che educhi alla sostenibilità. Per quanto riguarda la scuola primaria, il progetto verterà sul ruolo del bambino nell’interazione con l’ambiente, mentre per la secondaria di primo grado sarà volto ad una conoscenza tecnica della problematica ambientale. Per la secondaria di secondo grado ci si concentrerà, invece, sugli aspetti giuridici, internazionali e politici, favorendo il dibattito.  

Tale progetto potrebbe costituire un primo tassello per la rinascita di una consapevolezza politico-ambientale nei giovani, che è auspicabile se portata avanti di pari passo con nuove forme di sensibilizzazione di cui il sistema scolastico deve farsi carico. Consentire ai ragazzi di approfondire le proprie conoscenze teoriche riguardo al cambiamento climatico può rappresentare un primo traguardo che acquista, però, valore, solo se inserito all’interno di un disegno più grande, che miri a riformare l’intero sistema di educazione scolastica, rivoluzionando l’approccio rivolto all’insegnamento delle discipline tradizionali, con particolare attenzione rivolta a stimolare le capacità di analisi dei fenomeni socio-economici.

Una scuola che educa ed indirizza i suoi studenti ad essere esclusivamente produttivi, e non ad acquisire consapevolezza critica riguardo agli argomenti trattati, è una scuola che non mira a formare individui in grado di pensare al di fuori degli schemi capitalistici cui sono abituati a far riferimento. La scuola di cui i giovani hanno, oggi, disperato bisogno deve essere, invece, volta a creare un nuovo modello di società che sia in grado di far fronte alle problematiche generate dal sistema politico-economico attuale, in primo luogo quella ambientale.

 

IL PREZZO DELLA MODA

Michela Trupiano
IC
Giulia Pallonetto
IA

Con il termine fast fashion viene indicato un design economico e accessibile a tutti che nasce dall’influenza delle nuove tendenze portate alla Settimana della moda in autunno e primavera.

Però, mentre i tradizionali cicli della moda seguono l’annuale successione delle stagioni (estate, autunno, inverno, primavera), la fast fashion si basa, invece, su cicli molto più brevi, di 4-6 settimane circa.

L'obiettivo principale della fast fashion, infatti, è quello di creare rapidamente un prodotto in modo economicamente efficiente che soddisfi sia i gusti dei consumatori in continua evoluzione sia il desiderio di acquistare un capo che sembra di alta moda, ma è disponibile a un prezzo minore.

Negli ultimi anni, i rivenditori della fast fashion hanno incominciato a vendere vestiti pensati per essere gettati dopo essere stati indossati solo poche volte: i jeans dell'anno scorso, per esempio, sono stati progettati per essere sostituiti dai nuovi modelli di quest'anno. In questo modo, i capi d'abbigliamento vengono acquistati anche quando quelli vecchi sono ancora indossabili e utilizzabili, incrementando il fenomeno del consumo eccessivo (in inglese overconsumption).

Le grandi multinazionali, dunque, sfruttano due principali strategie di marketing per indurre i consumatori ad acquistare i loro prodotti: la pubblicità e il visual merchandising. Quest’ultimo viene utilizzato da grandi aziende, come Primark, che investono maggiormente nella struttura del negozio, affinché il consumatore sia spinto ad entrare.

Oggi giorno il consumo di capi d’abbigliamento è aumentato enormemente, contribuendo così all’ inquinamento ambientale. Infatti, una famiglia americana media produce circa 70 libbre di rifiuti tessili all’anno, che moltiplicati per l’intero paese, arrivano a 10,5 milioni di tonnellate annuali di vestiti e tessuti, mentre l’Unione Europea ne produce 5,8 milioni di tonnellate. Nel complesso, dunque, l'industria tessile occupa circa il 5% delle discariche globali.

Gli indumenti che vengono gettati nelle discariche sono spesso costituiti da materiali sintetici o inorganici che non sono degradabili. Uno di questi materiali è il poliestere, ormai diventata la fibra più diffusa per l’abbigliamento a basso costo; questo non è però biodegradabile e richiede una gran quantità di petrolio grezzo, la cui produzione rilascia nell’atmosfera particelle e gas come CO2, idrocarburi e ossido di diazoto (che ha un potenziale di riscaldamento globale 310 volte superiore a quello dell’anidride carbonica).

È evidente, quindi, che l'accumulo di rifiuti nelle discariche del mondo sta causando effetti negativi sull'ambiente, ma non rappresenta l'unica ricaduta sull'ambiente determinata dall'industria della fast fashion.

Infatti, sono attribuiti al settore tessile il 20% dello spreco globale di acqua, il 10% dell’emissione di anidride carbonica e una gran produzione di gas serra che inquina i vari ecosistemi. Inoltre le coltivazioni di cotone sono responsabili per il 24% dell’uso di insetticidi e per l’11% dell’uso di pesticidi.

Alcuni tra i negozi a noi molto familiari, sono i primi a utilizzare il sistema della fast fashion, come Bershka, Decathlon, H&M, Primark, Pull&Bear, Stradivarius, Benetton e Zara.

Dunque, cosa possiamo fare? 

Innanzitutto possiamo iniziare a comprare nei negozi vintage, negli outlet o nei mercatini cercare di informarci sui tessuti che sono dannosi per l’ambiente e per la nostra salute, verificare se un brand è etico e sostenibile e riciclare i vestiti che non indossiamo più, magari scambiandoli con familiari e amici o donandoli in beneficenza.

Inoltre, dobbiamo iniziare a sviluppare un senso di abitudinaria consapevolezza nell’acquisto dei nostri vestiti e provare a pensare più volte prima di comprare l’ennesimo capo d’abbigliamento che già abbiamo nei nostri armadi. Abbiamo veramente bisogno di tre magliette a 5€? Non ne basterebbe semplicemente una fatta bene, senza sfruttamento di persone e dell’ambiente?

Dunque, impariamo a preferire la qualità alla quantità per evitare che la moda contribuisca al cambiamento climatico del nostro pianeta.

 

CLIMATE CHANGE

Sara Manco
IC

In questo periodo sentiamo parlare sempre più spesso di "climate change" e "global warming" (rispettivamente cambiamento climatico e riscaldamento globale), ma sappiamo davvero cosa sono? Sappiamo davvero perché ci sono?

Partiamo dalle basi.

In climatologia il clima è lo stato medio del tempo atmosferico a varie scale spaziali rilevato nell'arco di almeno 30 anni (secondo la definizione ufficiale fornita dalla Organizzazione meteorologica mondiale).
Il sistema climatico è il risultato dell'accoppiamento tra atmosfera-oceano-biosfera-criosfera con scambi di calore sensibile, vapore acqueo e elementi chimici vari.

Il sistema climatico è un sistema in equilibrio dinamico costituito da forzanti esterne (esogene), principale è il Sole, ed interne (endogene), quali i cicli oceanici e la concentrazione di gas serra. Queste forzanti modificano il suo stato di equilibrio termico al variare dell'intensità.

Il cambiamento climatico si definisce come "un cambiamento del clima che sia attribuibile direttamente o indirettamente ad attività umane, che alterino la composizione dell’atmosfera planetaria e che si sommino alla naturale variabilità climatica osservata su intervalli di tempo analoghi”.

In climatologia l'espressione riscaldamento globale indica il mutamento del clima terrestre sviluppatosi a partire dalla fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo e tuttora in corso.

Questo è caratterizzato in generale dall'aumento della temperatura media globale e da fenomeni atmosferici a esso associati.

La comunità scientifica attribuisce tale mutamento a vari fattori imputabili all'attività umana ma, principalmente, alle emissioni nell'atmosfera terrestre di crescenti quantità di gas serra. Questi sono gas, presenti nell’atmosfera, che provocano ‘l’effetto serra’ lasciando passare molte delle radiazioni che dal Sole raggiungono la Terra riuscendo, però, a trattenere parzialmente le radiazioni infrarosse emesse da questa.

I gas serra possono essere causati da processi artificiali, ad esempio i gas fluorurati.. Quello che sentiamo più spesso è la CO2 (anidride carbonica) che rappresenta oltre il 75% delle emissioni causate dall’uomo ed è il principale responsabile dell’aumento della temperatura sul pianeta, un fenomeno ormai provato scientificamente e che secondo l’IPCC (comitato sul cambiamento climatico dell'ONU) entro il 2030 sarà superiore agli 1,5 °C ritenuti la soglia massima di sicurezza per avere effetti contenuti e gestibili, nonostante le grandi spese di denaro e risorse.

Gli altri gas serra vengono emessi in quantità minori, ma catturano più calore rispetto alla CO2 (talora mille volte di più). Il metano è responsabile del 19% del riscaldamento globale di origine antropica, l'ossido di azoto del 6%.

Una delle stime più accreditate è quella del’IPCC che si basa sui dati del 2010: il 25% deriva dalla produzione di elettricità e calore, dalla combustione di carbone, gas naturali o petrolio; il 24% dall’agricoltura, dall’allevamento e dalla deforestazione; il 21% dall’industria; il 14% dai trasporti; il 6% dal consumo di combustibili fossili per uso residenziale e commerciale; e per il 10% da una serie di altre attività come l’estrazione di combustibili fossili, la raffinazione del petrolio, la sua lavorazione e il suo trasporto.

Oltre ai gas fluorati, però, ci sono altri fattori che provocano il riscaldamento globale.

Alcuni esempi sono: 

●       la combustione di carbone, petrolio e gas che producono anidride carbonica e ossido di azoto

●       la deforestazione, poiché gli alberi aiutano a regolare il clima assorbendo CO2 dall'atmosfera.  Quest'azione viene a mancare nel momento in cui gli alberi vengono abbattuti e la CO2 contenuta nel legno viene rilasciata nell'atmosfera alimentando, in tal modo, l'effetto serra.

●       Lo sviluppo dell’allevamento di bestiame. I bovini e gli ovini, difatti, producono grandi quantità di metano durante il processo di digestione.

●       I fertilizzanti azotati che producono emissioni di ossido di azoto.


La partenza combinata della temperatura della superficie terrestre e oceanica rispetto alla media dell'ottobre 2019 è stata la seconda più alta di ottobre nel record di 140 anni a 0,98°C sopra la media del XX secolo di 14,0°C.


Ma perché ci preoccupiamo tanto? Cosa farà mai un po' di "calore" in più? L'aumento della temperatura terrestre provoca incendi e l'innalzamento del livello degli oceani causando la DISTRUZIONE e l’inondazione di habitats naturali di diversi esseri viventi (tra cui l'uomo). Prendendo la California come esempio, secondo un recente studio pubblicato da Earth’s Future, la temperatura media nei giorni della stagione calda nello stato americano è aumentata di 2,5 °C dai primi anni ’70.

 Il Global Forest Watch Fires (Gfwf) del World Resources Institute (un’organizzazione di ricerca che opera in oltre 60 Paesi al mondo) ha elaborato da inizio anno i dati provenienti dai satelliti della Nasa (combinandoli con altri indicatori), per quantificare il numero di incendi registrati sul pianeta in tempo reale. Da inizio anno a oggi, secondo il Gfwf, le osservazioni registrate dal Moderate-resolution Imaging Spectroradiometer (MODIS) avrebbero rilevato oltre 2 milioni e 910 mila “allerte incendio”. Secondo i dati ricavati nello stesso periodo nel 2018, queste erano state quasi 100 mila in meno. Nel 2017, 200 mila in meno.

L’inquinamento atmosferico, secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, provoca ogni anno nel mondo circa 7 milioni di vittime (500mila circa in Europa).

 

CAMBIAMENTI CLIMATICI:
COSA NE PENSA LA POLITICA?

Beatrice Biscaglia
IB
Mariachiara Giglio
4E

Il cambiamento climatico dovrebbe essere uno di quei temi che non hanno colore politico, uno di quei temi universali: dovrebbe essere scontato combatterlo, ma gli esseri umani riescono sempre a sorprenderci. C’è infatti chi afferma che “agli Usa farà bene un po’ di riscaldamento globale” perché fa troppo freddo. Donald Trump è solo uno dei tanti politici negazionisti del cambiamento climatico.

Nel 2017, la politica negazionista di Trump ha raggiunto il suo apice con la decisione del presidente degli Stati Uniti di uscire dagli accordi di Parigi. Un’allarmante decisione se si pensa all’impatto ambientale degli Usa: dal 1975 al 2017 il Pentagono ha immesso nell’atmosfera circa 52 milioni di tonnellate di Co2; se questa struttura fosse una nazione, le sue emissioni lo renderebbero il 55° Paese più inquinante al mondo con emissioni superiori a paesi industrializzati come Portogallo, Svezia o Danimarca. I politici statunitensi non sono rimasti in silenzio di fronte alla preoccupante decisione di Trump: Obama si è infatti dichiarato fortemente contrario affermando che “così si rifiuta il futuro”. Fortunatamente la Camera dei rappresentanti Usa ha recentemente approvato con 231 voti favorevoli e 190 contrari un disegno di Legge che richiede all’Amministrazione Trump di mantenere gli Stati Uniti d’America all’interno degli Accordi sul clima di Parigi.

Purtroppo Trump non è l’unico presidente a negare l’esistenza del cambiamento climatico e Jair Bolsonaro, Presidente del Brasile, ne è l’esempio perfetto. Per Bolsonaro l’Amazzonia in fiamme non sembra infatti essere un problema. All’Assemblea generale dell’Onu, Bolsonaro ha dichiarato: “La regione amazzonica rimane virtualmente intatta, ed è la prova del fatto che siamo uno dei paesi che più protegge l'ambiente. Durante questa stagione la siccità favorisce incendi spontanei - ha aggiunto - sappiamo che tutti i paesi hanno problemi, ma gli attacchi sensazionalistici che abbiamo sofferto da grande parte dei media internazionali sugli incendi ha risvegliato il nostro sentimento patriottico".

Non tutti i presidenti sono però negazionisti, diversi politici europei si distinguono per il loro impegno a sostegno dell’ambiente. L’esempio più emblematico è sicuramente quello del partito dei Verdi, il Partito Verde Europeo. Il PVE punta infatti sulle cosiddette "politiche verdi" come le fonti di energia rinnovabili, la salvaguardia dell'ambiente e dei consumatori, e la tutela delle donne.

Spostiamoci però sulla gestione di questa problematica in Italia, dove possiamo individuare diverse situazioni: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del Climate Action Summit del 23 settembre ha firmato una dichiarazione all’interno della quale si diceva che “Le attuali misure adottate dalla comunità internazionale, espresse in contributi determinati su base nazionale (Ndc), non sono sufficienti a raggiungere gli obiettivi a lungo termine stabiliti nell'Accordo di Parigi. Bisogna fare di più e l'azione deve essere rapida, decisiva e congiunta". L’opinione del capo di Stato è dunque quella di dover mettere in pratica tutto ciò che nell’ultimo periodo viene decantato sia sui mass media sia nella vita quotidiana, in quanto “il cambiamento climatico è la sfida chiave del nostro tempo. La nostra generazione è la prima a sperimentare il rapido aumento delle temperature in tutto il mondo e probabilmente l'ultima ad avere l'opportunità di combattere efficacemente l'imminente crisi climatica globale”.

Il discorso di Mattarella ha inoltre un fondamento puramente scientifico: sono state documentate anomale ondate di calore, colate di fango, siccità, inondazioni e tanti altri fenomeni che riassumono i cambiamenti climatici che a causa dell’uomo il nostro ambienta sta subendo. “Il cambiamento climatico”, ci tiene ad aggiungere il Presidente della

 

Repubblica, “è d'ostacolo all'economia globale. Minaccia diversi settori, tra cui agricoltura, silvicoltura, turismo, energia, infrastrutture e risorse idriche e, inevitabilmente, rappresenta una seria minaccia per la pace e la stabilità in tutto il mondo”.

Il pensiero di Mattarella è quindi improntato verso un futuro ecosostenibile e che riesca a conciliare sia l’economia che la certezza di vita delle prossime generazioni.

Dall’altra parte però Matteo Salvini, rappresentante della Lega ed ex ministro dell’interno, ha preso una posizione piuttosto contraria alle riforme proposte per la tutela dell’ambiente.

Un esempio della sua reticenza e del suo scetticismo nei confronti del cambiamento climatico è il rifiuto da lui mosso nei confronti della rimozione delle bottiglie di plastica dai supermercati o almeno ad un loro aumento di prezzo per spingere le famiglie ad acquistare recipienti in vetro. La sua risposta alle domande di chi giustamente si chiedeva il perché di tale rifiuto è stata che “le famiglie spendono meno in plastica che in vetro. Per non danneggiarle economicamente è meglio consentire loro di utilizzare bottiglie usa e getta”.

Infatti è innegabile l’indifferenza e l’ignoranza che si celano dietro una risposta simile: il costo di una bottiglia di plastica al giorno per un anno intero è sicuramente maggiore di quello di una bottiglia in vetro di durata sicuramente più lunga. Se quindi una bottiglia di plastica ad una famiglia viene a costare giornalmente 50 centesimi l’una per 365 giorni l’ammonto sarebbe infine di ben 182 euro, il tutto senza calcolare le intere casse di acqua, le quali vengono a costare da un euro in su.

La Lega di Matteo Salvini si dimostra contraria anche alla direttiva riguardo le energie rinnovabili, la contabilizzazione dei gas effetto serra verso un 2030 sostenibile, la diminuzione di emissioni di Co2 da parte delle automobili e via dicendo, opponendosi in tutto e per tutto all’Accordo di Parigi.

Il pensiero che si potrebbe nascondere dietro un comportamento così sfrontato nei confronti di questa causa comune è l’economia: è chiaro a tutti che una delle cause dei cambiamenti climatici è sicuramente l’economia non sostenibile che da anni pratichiamo, e dunque combattere gli stessi cambiamenti climatici significherebbe per loro fermare l’economia fonte di guadagno.

Dunque individuiamo una scissione netta tra chi desidererebbe un progresso ambientale da parte sia della singola nazione che di tutto il mondo (Obama, i Verdi e Mattarella) e chi invece si dimostra scettico rivelando sotto le sue povere motivazioni un semplice interesse economico (Trump, Bolsonaro e Salvini) ancorando il sistema economico globale ad una serie di catastrofi altrimenti inevitabili.

L’unico modo per andare avanti in maniera sostenibile è sradicare l’economia altamente inquinante dal modo di vivere di ciascuna persona: è essenziale nel rispetto delle generazioni future mettersi in moto per evitare di lasciare ai nostri prossimi una situazione ben peggiore di quella che stiamo vivendo a causa del nostro poco lavoro a riguardo.

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO:

ALCUNI DATI -QUASI- ECONOMICI

Camilla Pananiello
2B

“Casa nostra è in fiamme” e “there is no planet B” sono solo due dei centinaia di slogan che si intravedono nelle manifestazioni  “Fridays for future”, il cui inizio è datato 17 marzo 2019.

La ragione per cui migliaia di persone sono scese a più riprese in piazza è da individuare semplicemente nella realtà che ci circonda: ghiacciai che si sciolgono, incendi di dimensioni esorbitanti, città che si riempiono d’acqua e altri disastri ambientali che influiscono negativamente sull’assetto urbanistico degli stati. Venezia, Barcellona, Sydney, sono solo alcuni dei nomi delle città colpite da rovinosi nubifragi.

Ma quali sono state le conseguenze?
Dal 2011 ad oggi sono stati  circa 563 gli eventi registrati sulla mappa del rischio climatico e  in Italia è stata addirittura registrata la morte di 68 persone. I fondi investiti nel nostro paese sono stati dal 1998 al 2018, secondo dati Ispra, circa 5,6 miliardi di euro (300 milioni all’anno) in progettazione e realizzazione di opere di prevenzione del rischio idrogeologico. Un altro problema legato alla questione idrogeologica è quello della contaminazione delle acque. Generalmente le acque superficiali tendono ad assorbire calore e CO2, che non si mescola poi con l’acqua marina una volta sfociato nell’oceano, ma si stagna al di sopra della sua superfice (più precisamente intorno ai 200 metri). Il risultato sarà così un insieme di flussi acquosi dal calore e dall’acidità maggiore a causa dell’anidride carbonica disciolta; questo fenomeno andrà così ad interferire sul mercato ittico globale, minando il commercio e l’economia di molti paesi che fondavano il proprio sostentamento soprattutto su questa tipologia di mercato.

 Il problema, però, non è solamente legato all’acqua, ma anche al fuoco: nel 2019 sono stati circa 75 mila gli eventi incendiari che hanno causato la distruzione della foresta amazzonica in Brasile. La stessa Inpe nei primi sette mesi del 2019 ha calcolato un’area di circa 3.700 km quadrati bruciati, che, anche se dettati dalle stesse tecniche di agricoltura utilizzate, sono stati dannosi per l’agricoltura mondiale, essendosi aggiunti alla già disastrosa situazione provocata dalla siccità.

La questione ovviamente non riguarda solo Italia o brasile, ma il mercato economico globale che secondo la campagna di riassicurazione Munich Re, tra il 1980 e il 2011, ha registrato una perdita di circa 510 miliardi di dollari a livello assicurativo a causa delle catastrofi ambientali. A questo proposito Lord Stern -economista ed autore del libro “ Stern Review on the Economics of Climate Change” (2006, cambridge univerity press)- ha affermato che siamo destinati ad un crescente peggioramento.

Cosa fare dunque? Una risposta concreta, forse, ancora non c’è. Le difficoltà sono tante e l’economia mondiale è molto più complessa di quanto sembri: questa situazione ciclica, forse, può essere sanata solo se spezzata in tutti i suoi punti e ricostruita punto e daccapo.

La mia, però, non è una verità assoluta: per determinare una reale soluzione bisognerebbe conoscere importanti parti del mercato globale. Poiché ciò non è possibile, tento personalmente, e invito anche i miei coetanei, a impegnarsi nel proprio piccolo e a non lasciare che questa situazione si intrufoli in vie dalle quali non si può fuggire e a operare scelte personali quanto più possibilmente ecologiche e sostenibili.

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