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L’AIDS NEL MONDO DEL CINEMA:
AL DI LÀ DELLO STIGMA

Vincenzo Sarracino
II D

L’AIDS cominciò a diffondersi nel mondo a partire dagli anni ’50, ma non venne comunque notata, né se ne parlò con serietà, fino alla morte, nel 1985, dell’attore Rock Hudson che aveva contratto l’HIV, seguita dalla campagna di sensibilizzazione portata avanti soprattutto dall’amica di quest’ultimo, Liz Taylor, volta a promuovere comportamenti sessuali responsabili e sicuri. Da quel momento anche il cinema ha fatto la sua parte e molti sono stati i film che, a partire dagli anni ‘90, hanno portato il tema dell’AIDS sul grande schermo.

Uno dei primi è stato Philadelphia, uscito nelle sale nel 1993, che vede il brillante avvocato Andy Beckett (Tom Hanks), che, con l’aiuto del collega Joseph Miller (Denzel Washington), un uomo con non pochi pregiudizi nei confronti degli omosessuali, intenta una causa contro i suoi ex soci perché sospetta che questi l’abbiano licenziato perché è gay e malato di AIDS;

“Mettiamo una bella luce negli angoli bui!” dice Miller durante il processo, chiarendo l’intento della pellicola “Perché questa causa non è solo sull’AIDS. Quindi iniziamo a parlare dei veri problemi di questo processo. L’odio della gente, la nostra ripugnanza, la nostra paura degli omosessuali e di come questo clima di odio e di paura abbia portato all’ingiusto licenziamento di questo omosessuale, il mio cliente Andrew Beckett!”

Interessante è il fatto che malati di AIDS comparsi nel film erano persone realmente sieropositive, molti dei quali morirono pochi mesi dopo la fine delle riprese.

Soltanto pochi anni dopo, nel 1999, dalla Spagna, il regista da Oscar Pedro Almodovar, assemblando come pezzi di un puzzle storie ai margini,  sforna il capolavoro Tutto Su Mia Madre, che racconta il travagliato viaggio di Manuela (Cecilia Roth), che, in seguito alla morte del figlio Esteban, parte alla ricerca del padre, la transessuale Lola (Esteban all’anagrafe), durante il quale incontra la sua vecchia amica Agrado (Antonia San Juan), anche lei transessuale, l’attrice di teatro Huma (Marisa Paredes) e la missionaria Rosa (Penelope Cruz), incinta del figlio di Lola, che, tuttavia, le ha anche trasmesso l’HIV.

Quello di Manuela è un confronto con le vite e la fragilità degli altri e, al contempo, un tuffo nel passato doloroso e complesso, dominato dalla figura onnipresente e oppressiva del giovane figlio Esteban tragicamente morto, durante il quale la donna dà tutta sé stessa per aiutare gli altri, andando a creare un equilibrio tra disperazione e forza, tipico dei personaggi di Almodovar, capaci di rialzarsi anche dopo i drammi peggiori.

Di produzione italiana è degno di nota soprattutto Le Fate Ignoranti, della regia del “Turco Napoletano” Ferzan Ozpetek. Anche in questo caso si parte da un lutto, in seguito al quale il medico Antonia (Margerita Buy), specializzata nella cura delle malattie virali, donna socialmente ed economicamente affermata, scopre che il suo defunto marito intratteneva da tempo una relazione con Michele (Stefano Accorsi), uomo delicato e profondo con cui Antonia stringe una complicata amicizia, e frequenta la variopinta comunità di cui il ragazzo fa parte con il pretesto di assistere Ernesto (Gabriel Garko), un giovane sieropositivo che rifiuta le cure in attesa del ritorno del suo fidanzato, che in realtà è morto di AIDS.

Attraverso il contatto e l'impatto con la realtà rappresentata dal gruppo, mitigati dalla condivisione del ricordo del marito, Antonia subisce un processo di maturazione personale e di affrancamento dagli schemi borghesi che rappresentavano la sua gabbia dorata. Dal rapporto perennemente in tensione con Michele nasce un legame profondo, che sembra quasi avvicinarsi all’amore. Il film segue così una continua climax che culmina nel finale, aperto, ma la cui poetica immagine conclusiva evoca speranza.

I personaggi di Denzel Washington, Cecilia Roth e Margherita Buy rappresentano il superamento degli schemi che li confinavano in un mondo isolato dalla realtà, in un processo di maturazione personale che li porterà a contatto con un universo variopinto e cosmopolita, nel quale acquisiscono la consapevolezza che i loro pregiudizi non sono fondati.

QUESTA VOLTA PARLIAMO DI DONNE

Giulia Sofia Caramiello
IIA

E anche tu ci hai lasciato.

Questo 9 dicembre si è spenta a Roma lei, l’intramontabile Lina Wertmüller, una delle registe più importanti del cinema italiano. Dibattuta, amata, odiata, dimenticata. Le sue pellicole e i suoi titoli, così stravaganti, furono forse quel ponte che collegò il cinema d’autore al cinema più popolare dell'epoca, con risultati talvolta brillanti, talvolta opachi. La sua è stata una carriera durata quasi cinquant’anni, che nasce con una gavetta come assistente per Fellini e che interessa non solo il grande schermo, ma anche i salotti degli italiani.

Debutta nel 1963 con “I basilischi”, opera che a tratti ricorda “I vitelloni” di Fellini, e poi “Questa volta parliamo di uomini” nel 1965. Si passa dunque per “Mimì metallurgico ferito nell’onore”, che valse il David di Donatello a Giancarlo Giannini, “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto”, uno dei più grandi successi del 1975, con Mariangela Melato, e che ancora oggi fa parte del palinsesto estivo. Altri successi, anche internazionali, altri titoli bizzarri, ma inizia ad apparire qualche insuccesso e la critica, se aveva apprezzato alcune delle sue prime opere, sembra invece disprezzare quelle che riguardano l’ultimo periodo della sua carriera. I suoi film sembrano perdere valore sociale e diventano esasperati, a tratti grotteschi e banali. “Ferdinando e Carolina”, “Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica”, e “Io speriamo che me la cavo”, che racconta il degrado in un fittizio paesino napoletano, forse eccessivamente macchiettistico, mostrano i sintomi di una mano meno graffiante ed efficace. “Peperoni ripieni e pesci in faccia”, però, segna davvero la fine della sua carriera per il grande schermo, dopo una fredda accoglienza da parte della critica e del pubblico.

Ma è pur sempre la Wertmüller ed è innegabile che sia stata per il cinema del Belpaese, quanto per quello estero, un’icona. Come non citare infatti la sua opera di maggiore successo, “Pasqualino sette bellezze”, che le valse la candidatura agli Oscar nel 1975, per il miglior film straniero, la migliore sceneggiatura originale e la miglior regia. Fu la prima donna nella storia del cinema. Quest’opera, un film di denuncia e di sopravvivenza dell’uomo a ogni costo, con la magistrale interpretazione di Giannini, fa conoscere la Wertmüller al mondo intero e ispirerà i registi a venire. Solo infatti nel 1994, quasi vent’anni dopo, ci sarà di nuovo la candidatura di un’altra donna come miglior regista. “Pasqualino sette bellezze” non vince in nessuna categoria, ma nel 2020 la regista riceve l’Oscar alla carriera, perché la sua filmografia così estroversa e rivoluzionaria doveva essere ed è stata premiata. Il suo spirito eccentrico si rifletteva non solo nel suo aspetto, iconici i suoi occhiali bianchi, ma anche nel rapporto con gli attori, tra cui Luciano De Crescenzo, a cui azzannò il dito perché “gesticolava troppo”.

Ma, a dirla tutta, dipingerla solo come bizzarra non le farebbe onore perché era anche una persona dalle schierate visioni politiche, una donna di sinistra, che faceva ben intendere la denuncia sociale nei suoi film, in alcuni più che in altri. Eppure anche lei ci ha lasciato e forse la sua dipartita avrebbe meritato più onori, ma il segno che ha impresso nella storia del cinema italiano rimarrà, così come nei ricordi di chi ha visto i suoi film.

THE FRENCH DISPATCH

«Sì, questo è un film francese però l’ispirazione nasce da un film italiano, L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica». «Ho deciso che volevo fare qualcosa di simile, un film che raccoglie storie diverse, tradizione molto italiana, una forma di antologia che troviamo anche in Fellini, Pasolini e Visconti.»

L'11 novembre 2021 esce nelle sale italiane The French Dispatch (of the Liberty, Kansas Evening Sun), l'ultimo film di Wesley Wales, "Wes" Anderson, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense conosciuto soprattutto per I Tenenbaum, Grand Budapest Hotel e Moonrise Kingdom.

Sempre ispiratosi a registi come François Truffaut, Louis Malle, Pedro Almodóvar, Satyajit Ray, John Huston, Mike Nichols, Hal Ashby, Stanley Kubrick, Woody Allen, Martin Scorsese, Orson Welles e Roman Polanski, porta alla luce commedie veloci ma con temi seri e malinconici. Simmetrico, colorato e divertente, The French Dispatch, non delude.

Il film ha ottenuto 1 candidatura a Golden Globes, In Italia al Box Office ha incassato 719 mila euro nel primo weekend. Presentato in concorso al Festival di Cannes ha ricevuto 9 minuti di applausi.

Una raccolta di volti e voci come Tilda Swinton, Bill Murray, Owen Wilson, Benicio del Toro, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Lyna Khoudri, Edward Norton, Elisabeth Moss, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Saoirse Ronan e altri; The French Dispatch, racconta la storia di una rivista statunitense piantata in una città francese del XX secolo; dopo la morte del direttore generale del giornale (Bill Murray), vengono ripubblicati gli articoli migliori scelti tra tutte le edizioni passate e presenti, dividendo il film in quattro atti.

Il reporter ciclista, Herbsaint Sazerac, interpretato da Owen Wilson, mette a confronto la condizione sociale della banlieue del passato con quella del presente. 

Un capolavoro nel cemento, storia raccontataci da J.K.L. Berensen (Tilda Swinton), personaggio ispirato alla giornalista Rosamund Bernier. Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), un artista mentalmente disturbato imprigionato per omicidio nel carcere di Ennui, diventerà uno stimato maestro espressionista per i mercanti d’arte con l’aiuto del commerciante d'arte Julian Cadazio, basato su Joseph Duveen, che lo farà esordire.

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Revisione di un testamento, con le parole della giornalista Lucinda Krementz (Frances McDormand), Anderson sottolinea una mancanza di neutralità giornalistica, raccontando una protesta studentesca che scoppia nelle strade di Ennui e che presto diventerà la "rivoluzione della scacchiera". Protagonista il giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet) leader della rivolta ispirato a Cohn-Bendit che aiutò a guidare le proteste in Francia del '68.

La sala da pranzo del commissario di polizia, ultima parte che combina colori, bianco e nero e cartone animato, vede la partecipazione di Roebuck Wright (Jeffrey Wright), personaggio creato dall’unione di James Baldwin, Liebling e Tennessee Williams, ad una cena privata con il commissario della polizia di Ennui, cena che verrà interrotta dal rapimento del figlio del commissario, Gigi, che verrà salvato grazie all'aiuto del cuoco Nescaffier che avvelenerà i rapitori.

 «L’idea nasce dal New Yorker che leggevo quando ero ragazzino e poi ho incominciato a interessarmi a tutta la realtà che stava dietro questa rivista, a studiare e cercare di capire come veniva fatto, che persone vi lavoravano e che personaggi animavano la redazione. La prima cosa che mi ha attirato sono stati quei racconti brevi che sono all’inizio della rivista, che all’epoca erano di fantasia». «Questo film per altro è presentato come un focus sul giornalismo – chiarisce poi – ma in realtà si tratta di storie immaginarie, tratte dal giornalismo».

«Vorrei precisare che non ho mai definito questo film come una lettera d’amore al giornalismo ma in realtà alla fine del film appaiono i nomi sullo schermo di coloro che hanno ispirato questo mio lavoro. È talmente evidente però per me che ho un debito nei confronti di queste figure che proprio per evitare una potenziale accusa di plagio, io rendo molto evidente la fonte della mia ispirazione, come se facessi una nota a piè di pagina» dice il regista.

Sara Manco
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È STATA LA MANO DI DIO

L’ultima fatica di Sorrentino è sicuramente il suo film più intimo e personale, un’opera che ripercorre le tappe classiche del racconto di formazione abbandonando eccessivi manierismi e varcando continuamente quel labile confine che separa realtà e immaginazione, mescolando e
alternando sapientemente commedia e tragedia, passato e futuro, stasi e cambiamento. Toccando e sviluppando continuamente nuovi temi Sorrentino, che ha oramai pienamente raggiunto la maturità artistica, mette in scena un’opera che è in realtà un atto di catarsi e di liberazione dal dolore, un atto che crea un sincero e autentico legame tra spettatore e pellicola, legame che è immediatamente percepibile e che resta tale per tutta la durata del
film. Nulla, infatti, all’interno dell’opera risulta in alcun modo artificioso. Il protagonista Fabietto Schisa, alter-ego del regista, è un adolescente timido e malinconico la cui vita cambierà radicalmente nel corso di un estate. Un evento estremamente drammatico, infatti, lo priverà di qualsiasi punto di riferimento costringendolo ad interrogarsi sul futuro e a decidere “cosa fare da grande”.
Nel raccontare l’evoluzione di Fabietto, Sorrentino abbandona tutti quei virtuosismi che lo hanno da sempre contraddistinto per lasciare spazio ad una messa in scena paziente ed indulgente, che dilata i tempi, rallenta il ritmo della narrazione e preferisce sempre soffermarsi e riflettere piuttosto che mettere banalmente in sequenza una serie di
avvenimenti. Sorrentino non rinuncia tuttavia al suo gusto per il grottesco e alle scene di carattere onirico che rimandano inevitabilmente a Fellini. Tale confine con l’onirico e il surreale è spesso varcato dal regista per mettere in scena metaforicamente i drammi ed i conflitti interiori dei
protagonisti; basti pensare alla stupenda sequenza iniziale con l’incontro tra la zia di Fabietto, interpretata magistralmente da Luisa Ranieri, e San Gennaro accompagnato dal “munaciello”.
Tale incontro, mescolando sacro e profano, allude metaforicamente alle dinamiche di adulterio commesse dalla donna che la porteranno successivamente a subire violenze
domestiche dal marito.

Sullo sfondo della vicenda raccontata da Sorrentino c’è la Napoli degli anni ‘80, catturata in modo vivido ed impressa su pellicola in tutta la sua bellezza ed il suo fermento per
l’incredibile e quantomai inaspettato arrivo di Maradona. Quella di Maradona è una figura che aleggia costantemente all’interno del film, una presenza che, anche se sottilmente, è
individuabile in ogni scena e influisce radicalmente sulla vita dei personaggi, talvolta infatti egli si palesa allo spettatore in un piccolo televisore sullo sfondo dell’inquadratura o magari
nella flebile voce di una telecronaca sovrastata dai dialoghi dei protagonisti. Maradona, quindi, risulta sempre come un qualcosa di onnipresente ma al contempo di estremamente
irraggiungibile, proprio come un dio.
Tema centrale è anche la nascita dell’amore di Fabietto per il cinema, che egli vedrà come il mezzo per incanalare e metabolizzare l’enorme dolore che lo aveva appena travolto.
Fondamentale è, infatti, la scena dell’incontro di Fabietto con il regista Antonio Capuano che in modo schietto e quasi feroce, in un’ ambientazione che sembra fuori dal tempo, un luogo misterioso e arcano, lo farà riflettere sulla sua esigenza di esprimersi, sull’essenza del cinema e sull’importanza del "non disunirsi" e ricercare la propria identità. A questo punto Fabietto, che è oramai diventato Fabio, parte per Roma, ma con la sua terra impressa nel cuore, la stessa terra che nel bene e nel male ha fatto da sfondo alla sua vita. Emblematica, a tal proposito, è la scena finale dei titoli di coda: Fabio è in treno e con aria malinconica guarda attraverso il finestrino, dal suo walkman sentiamo riprodurre per la prima e ultima volta una canzone: Napul'è.

Francesco Russo
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FRIDA KAHLO - IL CAOS DENTRO

A Palazzo Fondi, in via Medina, dal 22 settembre 2021 al 9 gennaio 2022 è possibile visitare una mostra su una delle artiste messicane più conosiciute e apprezzate: Frida Kahlo.

Frida Kahlo nasce a Coyoacán, Messico nel 1907 -anche se dirà di essere nata nel 1910, sentendosi figlia della rivoluzione messicana iniziata proprio quell’anno. A causa di una poliomelite contratta a 6 anni, subisce delle deformazioni alla gamba e al piede destro, motivi di bullismo durante gli anni di scuola, tanto che verrà chiamata “Frida pata de palo” (gamba di legno) a causa delle sue difficoltà nel camminare. Il 17 settembre 1925 accade uno degli eventi principali della vita di Frida, allora diciottenne: l’autobus sul quale si trovava l’artista si schianta contro un tram, causando un violento scontro. Da questo incidente Frida risulterà gravemente ferita: diverse fratture alla colonna vertebrale, al piede destro e al bacino, lussazione del gomito sinistro, e inoltre un pezzo del corrimano le trafigge l’anca. Questo incidente non le sarà letale, ma dovrà passare molto tempo in ospedale e soprattutto a letto a casa. Proprio durante questa permanenza a casa nascerà la sua passione per la pittura, infatti grazie ad un cavalletto applicato al letto realizzerà i suoi primi dipinti, tra cui diversi autoritratti mediante l’ausilio di uno specchio fissato sul soffitto del suo letto a baldacchino. Terminata la sua permanenza a letto, Frida mostrerà i suoi dipinti a Diego Rivera, noto pittore messicano, che poi sposerà nel 1929. Anche la vita coniugale di Frida sarà molto turbolenta: molti i tradimenti, sia da parte di Diego che di Frida -la quale avrà rapporti sia con uomini che con donne-.

A seguito del tradimento di Diego con la sorella della moglie, Cristina, Frida divorzierà dal marito nel 1939, per poi risposarsi l’anno seguente. Frida, parlando del suo rapporto con Diego, dirà: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita... Il primo è stato quando un tram mi ha travolto, e il secondo è stato Diego”. Nel 1954 si ammalerà di polmonite e il 13 luglio dello stesso anno morirà nella sua casa Azul.

Questa bellissima mostra offre la possibilità di vedere le riproduzioni dei luoghi della casa di Frida, di ripercorrere la sua intera vita, la sua storia con Diego Rivera, di conoscere le storie dei dipinti della pittrice, di vedere la tradizione messicana che hanno ispirato la sua arte, di esplorare le emozioni di Frida, il suo dolore, le sue passioni attraverso i colori, le rappresentazioni della sua arte, le lettere scritte da lei. Inoltre sono esposte splendide foto scattate dal fotografo Leo Matiz, alcuni dipinti di Diego, la riproduzione dei vestiti indossati dai personaggi nei quadri dell’artista, una mostra di francobolli provenienti da diversi paesi del mondo dedicati a Frida e molto altro.

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 Flavio Centofanti
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MADRES PARALELAS

     Fabio Confuorto
IIC      
                                                                                           

Madres Paralelas è un film del 2021 scritto e diretto dal registra spagnolo Pedro Almodòvar.  Racconta la storia di due donne diametralmente opposte: Janis, interpretata da Penélope Cruz, è una fotografa di successo, che per tutto il film, insieme all'archeologo Arturo, cerca disperatamente i resti del bisnonno scomparso durante la guerra civile spagnola; Ana, Milena Smit, è un’adolescente dal rapporto conflittuale con i genitori, ancora alla ricerca di un obiettivo da seguire nella vita. Le due donne si incontrano in ospedale, entrambe in travaglio, condividono le ultime fasi della gravidanza e partoriscono lo stesso giorno. Uscite dall'ospedale le loro vite si separano, ma dopo vari mesi sono costrette a ricongiungersi per problemi legati alla loro permanenza in ospedale.

Il filo conduttore del film è Janis, la storia della sua vita si intreccia prima con il racconto di quella di Ana, poi con la realtà storico-politica.

Uno dei temi principali su cui il regista pone grande attenzione è quello dei Desaparecidos, oppositori politici di sinistra perseguitati dal regime dittatoriale spagnolo con a capo Francisco Franco (1939-1975), che instaurò una politica a stampo fascista, tradizionalista, conservatrice e clericale. La persecuzione dei Desaparecidos non è solo un fenomeno della Spagna Franchista, ma anche dell’Argentina, del Cile, dell’Uruguay, della Cambogia, Grecia e Iraq. Oltre ad Almodovar molti altri artisti hanno trattato questo tema attraverso musica, canzoni e libri. Esempi sono Manu Chao con la sua canzone Desaparecido, Roman Polanski con il film La morte e la fanciulla, Luis Sepúlveda con il libro Le rose di Atacama.

È d’obbligo una riflessione sulle diverse opinioni politiche che hanno Janis, Ana, e sua madre Teresa.

Janis, cresciuta in un paese agreste di provincia dalla nonna, grazie alla quale apprende la sanguinosa storia della guerra civile spagnola, risulta interessata alle vicende storico-politiche passate e contemporanee del suo paese, al contrario Ana e sua madre Teresa si definiscono apolitiche, ovvero disinteressate alle vicende politiche del paese.

Quest’ultima viene educata alla conoscenza e alla conservazione della memoria storica spagnola ed è proprio intorno a tale conservazione che gira la sua vita, occupata, per una buona parte della storia, dal lavoro di scavo nella fossa comune vicino il paese in cui è cresciuta, poiché è forte in lei la volontà di portare alla luce le verità sepolte negli anni. Il regista mette in risalto la vera e propria lotta tra due ideologie e il prevaricare dell’una sull’altra. La mentalità portata avanti da Ana e sua madre, dominata dall’indifferenza, dal disinteresse politico, dall’ apparire piuttosto che dall’essere, ai giorni nostri sembra prevaricare sulla mentalità attiva e sincera di Janis. In questo contesto Almodòvar inserisce la sua critica nei confronti della moderna società spagnola, che rischia di perdere il contatto con il suo doloroso passato, poiché si sta andando a modellare intorno ai principi di un’ideologia priva di ogni interesse politico.

Nel film vengono affrontati anche altri temi attuali, come quello del “Revenge Porn”, fenomeno che ha iniziato a diffondersi intorno al 2014 e il 2015 e che consiste nel divulgare materiale pornografico online, come foto o video privati, senza il consenso di uno dei partner sessuali. Ana è vittima di tale crimine, infatti, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, viene filmata a sua insaputa da un gruppo di perfidi ragazzi, anche autori di uno sporco ricatto sessuale che causerà la gravidanza della ragazza. Emerge dunque un interesse da parte del regista a fare emergere e denunciare i problemi della società contemporanea che interessano soprattutto i giovani, e la volontà dello stesso di farsi promotore di un’educazione rivolta agli adolescenti, perché non si trovino mai ad essere né vittime né colpevoli.

Antonia Tarantino Laporta
IC
                                                                                           

MI OCCUPO DEL CHAOS, IL PREMIO NOBEL GIORGIO PARISI

“Lo scienziato lavora perché è curioso, la spinta dello scienziato è la curiosità. Il mio maestro, Nicola Cabibbo, con cui mi sono laureato, diceva spesso:

<<Ma se questo problema non ci diverte, perché dovremmo studiarlo?>>    

-Giorgio Parisi, dal film “Giorgio Parisi

e la fisica della complessità” (2013)

 

Giorgio Parisi, fisico teorico alla Sapienza di Roma, è stato insignito del premio Nobel per la fisica "per la scoperta dell'interazione tra il disordine e la fluttuazione nei sistemi fisici da scale atomiche a planetarie". Nato a Roma nel 1948, Giorgio Parisi ha frequentato la facoltà di fisica alla Sapienza di Roma, per poi laurearvisi nel 1970 con una tesi sul bosone di Higgs. E' stato ricercatore presso il CNR (consiglio nazionale delle ricerche), l'INFN (istituto nazionale di fisica nucleare) e altri enti, nonché professore alla Columbia University, all'università di Tor Vergata e, dal '92, alla  Sapienza. 4 libri e oltre 600 articoli, Giorgio Parisi è uno degli scienziati italiani più noti e apprezzati.

 

Si è distinto in meccanica statistica, fisica delle particelle, fluidodinamica e altri campi, ma ad ottobre di quest’anno il Nobel gli è stato conferito per alcune scoperte nell'ambito della meccanica statistica, che studia la relazione tra dinamica e termodinamica attraverso la statistica e la probabilistica. Le ricerche di Giorgio Parisi, iniziate alla fine degli anni '70, vertono sullo studio dei sistemi complessi, ovvero sistemi dinamici in cui sono presenti numerosi componenti che interagiscono tra di loro in maniera non prevedibile. Questo finché Giorgio Parisi non ha ideato un modo per modellizzare un sistema complesso attraverso l'osservazione degli spin glasses (o vetri di spin) utilizzando il metodo delle repliche.

 

Gli spin glasses sono delle leghe metalliche in cui sono presenti degli atomi di natura ferromagnetica; tali atomi, ad una certa temperatura, si dispongono in una posizione non prevedibile a causa del fenomeno della "frustrazione". Per comprendere meglio questi spin glasses, possiamo immaginare di trovarci in un ristorante e di dover scegliere una portata da un menù che mette a disposizione infiniti ottimi piatti.

Ci sono moltissimi fattori che ci portano a preferire una pietanza rispetto ad un'altra, -un primo è fatto con un tipo di pasta che preferiamo, una bistecca è speziata in maniera particolare, o magari c'è il nostro piatto preferito che però è cotto al forno e non alla griglia, e non siamo sicuri se sarà buono o meno- e non riusciamo, inizialmente, a prendere una decisione (a causa della frustrazione, che in questo caso rappresenta la nostra indecisione). Alla fine però, quando il cameriere verrà a prendere la nostra ordinazione, ordineremo ciò di cui avremo più voglia in quel preciso momento. La nostra scelta, come il posizionamento degli atomi in uno spin glass, non era prevedibile, ma attraverso il metodo delle repliche Giorgio Parisi riuscirebbe a prevederla. Il metodo delle repliche consiste nell'osservazione in contemporanea di fenomeni identici, per poi dividere ogni replica in gruppi e sottogruppi in base alle loro differenze, così da capire le proprietà in comune per prevedere l'andamento del fenomeno. Se infatti la maggior parte delle volte che si va in questo ristorante dal menù si sceglie un piatto di carne, si può immaginare che la prossima volta verrà fatta una scelta simile.

 

Questa scoperta è applicabile in vari ambiti, dalla matematica alla biologia, dalla fisica ai fenomeni climatici. Il disordine si manifesta infatti in scale diverse, dal microcosmo con le strutture atomiche al macrocosmo col movimento degli stormi di uccelli, fino ad arrivare al moto dei pianeti.

 

Giorgio Parisi non è da elogiare solo per le sue scoperte in ambito fisico; si è sempre impegnato nei dibattiti sul cambiamento climatico e continua a battersi per incrementare la ricerca scientifica in Italia. Anche durante la pandemia il contributo di Parisi è stato fondamentale, poiché, grazie all'analisi dei dati sulle morti e sui contagi, ha da subito compreso la gravità della situazione.

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 Flavio Centofanti
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