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SI RIACCENDE LA SPERANZA PER PATRICK ZAKI 

Gaia Della Ragione     Alessia Formisano
IIA

Un giorno come tanti nel mondo, ma non certo per Kabul. Un nuovo mondo, un nuovo modo, un passo indietro nel tempo.

Dopo vent’anni di dominio militare americano, vent’anni di finta innovazione, vent’anni di finta evoluzione, basta solo un giorno d’estate per tornare indietro nel tempo.

Gli esperti di geopolitica erano ben consci dell’avanzata dei talebani, fondamentalisti islamici armati che si rafforzarono come gruppo organizzato militarmente durante la resistenza contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, negli anni Ottanta, “supportata/sopportata” dagli americani che dovevano aver speso troppo in Afghanistan: troppi uomini, troppe risorse.

Un solo giorno, un solo accordo è bastato ai soliti grandi del mondo per spartirsi il sottosuolo afghano, lasciando l’intera popolazione a fare i conti con le conseguenze dell’incapacità degli stranieri di ammettere e di riconoscere che la democrazia non si esporta, ma è il risultato di un processo collettivo e culturale.

Un solo giorno per dimenticarsi delle 240 mila vittime dalla guerra in Afghanistan, tra cui 70mila uomini e donne delle forze di sicurezza afghane, più di 3.500 soldati della coalizione, due terzi dei quali americani.

È bastato un solo giorno per violare l’accordo di Doha, stipulato nel febbraio 2020, che prevedeva anche l’avvio di un dialogo intra-afghano con il governo di Kabul affinché i talebani arrivassero a una spartizione pacifica del potere e a una soluzione negoziata che rispettasse i principi democratici della costituzione afghana.

Quattro presidenze americane non sono bastate a porre fine alla guerra più lunga mai combattuta dai soldati statunitensi.

È bastato, però, un solo giorno per la reintroduzione formale della shari’a, la “strada rivelata”, quell’insieme di leggi non elaborate dall’uomo, ma dettate da Dio, un solo giorno per interdire le donne dalle università, dalle scuole e dai centri di cultura, e questo nella civile Kabul.

Non osiamo immaginare quale sia stata la realtà nei vent’anni di dominio militare e di “resistenza” dei talebani, nelle zone più selvagge e desertiche a confine con il Pakistan.

L’Afghanistan è sulla strada di un processo di cui non possiamo che vedere gli effetti negativi a livello di diritti civili, ma la storia ci ha dimostrato che quando i popoli sono privati anche dell’ultima briciola di diritto, che sia civile o sociale, la reazione di quel popolo sarà verso la libertà, la collettività e la laicità.

Non basterà una vita agli afghani per dimenticare le violenze subite, non basterà una vita per ricostruire quanto è stato distrutto, non basterà una vita per condannare coloro che, imbracciati i loro mitra, hanno esultato, gioiosi, dopo aver privato migliaia di bambine, bambini, donne e uomini della libertà fondamentale: quella di pensiero.

Nel ricordo della massima “la democrazia non si esporta” ci diciamo vicini, nel cuore e nella lotta, alle bambine e ai bambini, alle donne e agli uomini dell’Afghanistan e di tutti i popoli oppressi.

GREENPASS E LAVORATORI

UN GIORNO COME TANTI, MA NON PER QUALCUNO

Ludovica Cavallo
IC

Un giorno come tanti nel mondo, ma non certo per Kabul. Un nuovo mondo, un nuovo modo, un passo indietro nel tempo.

Dopo vent’anni di dominio militare americano, vent’anni di finta innovazione, vent’anni di finta evoluzione, basta solo un giorno d’estate per tornare indietro nel tempo.

Gli esperti di geopolitica erano ben consci dell’avanzata dei talebani, fondamentalisti islamici armati che si rafforzarono come gruppo organizzato militarmente durante la resistenza contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, negli anni Ottanta, “supportata/sopportata” dagli americani che dovevano aver speso troppo in Afghanistan: troppi uomini, troppe risorse.

Un solo giorno, un solo accordo è bastato ai soliti grandi del mondo per spartirsi il sottosuolo afghano, lasciando l’intera popolazione a fare i conti con le conseguenze dell’incapacità degli stranieri di ammettere e di riconoscere che la democrazia non si esporta, ma è il risultato di un processo collettivo e culturale.

Un solo giorno per dimenticarsi delle 240 mila vittime dalla guerra in Afghanistan, tra cui 70mila uomini e donne delle forze di sicurezza afghane, più di 3.500 soldati della coalizione, due terzi dei quali americani.

È bastato un solo giorno per violare l’accordo di Doha, stipulato nel febbraio 2020, che prevedeva anche l’avvio di un dialogo intra-afghano con il governo di Kabul affinché i talebani arrivassero a una spartizione pacifica del potere e a una soluzione negoziata che rispettasse i principi democratici della costituzione afghana.

Quattro presidenze americane non sono bastate a porre fine alla guerra più lunga mai combattuta dai soldati statunitensi.

â€‹È bastato, però, un solo giorno per la reintroduzione formale della shari’a, la “strada rivelata”, quell’insieme di leggi non elaborate dall’uomo, ma dettate da Dio, un solo giorno per interdire le donne dalle università, dalle scuole e dai centri di cultura, e questo nella civile Kabul.

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Non osiamo immaginare quale sia stata la realtà nei vent’anni di dominio militare e di “resistenza” dei talebani, nelle zone più selvagge e desertiche a confine con il Pakistan.

L’Afghanistan è sulla strada di un processo di cui non possiamo che vedere gli effetti negativi a livello di diritti civili, ma la storia ci ha dimostrato che quando i popoli sono privati anche dell’ultima briciola di diritto, che sia civile o sociale, la reazione di quel popolo sarà verso la libertà, la collettività e la laicità.

Non basterà una vita agli afghani per dimenticare le violenze subite, non basterà una vita per ricostruire quanto è stato distrutto, non basterà una vita per condannare coloro che, imbracciati i loro mitra, hanno esultato, gioiosi, dopo aver privato migliaia di bambine, bambini, donne e uomini della libertà fondamentale: quella di pensiero.

Nel ricordo della massima “la democrazia non si esporta” ci diciamo vicini, nel cuore e nella lotta, alle bambine e ai bambini, alle donne e agli uomini dell’Afghanistan e di tutti i popoli oppressi.

DDL ZAN

Francesco Ferrorelli
IIID

In un universo parallelo il d.d.l. Zan è passato, ma le persone si rendono conto che c'è ancora qualcosa che non va: la violenza di genere non è affatto svanita.

Come può una legge effettivamente tutelare chiunque? E soprattutto, come può prevenire ogni discriminazione? Proprio a tal proposito, spesso e volentieri viene ignorata l’esistenza di numerose leggi, come la legge Mancino del 1993, la legge di prevenzione del femminicidio del 2013, o addirittura la presenza di  commissioni di inchiesta sul femminicidio in Parlamento. Allora come mai i reati legati a problematiche intrinseche alla mentalità di una società sono in continuo aumento? 

Al fine di rispondere a tale quesito, bisogna sottolineare quanto una legge che applica una determinata pena non sia altro che una misura repressiva, la quale non basta a decostruire processi sociali così radicati. L’obiettivo, infatti, non è la tutela di una soggettività attraverso delle pene, ma considerare tale decreto come un primo passo in avanti di un percorso volto non solo all'abbattimento di ogni discriminazione di genere, ma anche al rispetto di ogni caratteristica dell'individuo attraverso un'educazione al piacere e all’affettività, smontando tutti gli stereotipi dannosi in ambito sessuale; volto anche a tutele concrete, come le carriere alias, in tutti i percorsi formativi e di lavoro, o ad un accesso all'istruzione a misura di persone con disabilità, favorendo poi la nascita di ambienti sicuri, attraversabili da chiunque.

È necessario, quindi, cominciare ad avviare serie campagne di sensibilizzazione sull’argomento a partire dai luoghi della formazione giovanili.

In sintesi, se il d.d.l. Zan fosse passato, sarebbe stato sì un grande passo in avanti, ma anche un modo attraverso cui riscoprire la storia e l'importanza di un movimento reso invisibile, che messo in evidenza, è stato strumentalizzato in gran parte da un neoliberismo sfrenato con il solo scopo di arricchirsi tramite ad esempio il rainbow washing. Solo il riconoscimento della Queer-fobia, espressione di un capitalismo cis-etero-patriarcale, può portare ad un’analisi che vada oltre il decreto-legge, non lasciando indietro nessuno, dalle città alle periferie. 

UN FRENO AL FUTURO

Bibi Tanga
IVA
Annamaria Ricciardi
IVA

Il DDL ZAN è un disegno di legge che ha come fine quello di punire chi commette atti di discriminazione e/o violenza nei riguardi dell’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità, prende il nome dal suo creatore Alessandro Zan. Esistono già leggi che mirano a punire la violenza, ma in determinati casi questa legge sarebbe potuta essere un aggravante. Dopo mesi di analisi il Senato, a scrutinio segreto, ha votato a favore della tagliola, proposta da Lega e Fratelli d’Italia per portare a termine gli esami della legge. Dei 288 senatori presenti hanno votato 154 a favore della tagliola, 131 contrari e due astenuti. Sconvolgente è stata la reazione dell’ala destra del Parlamento: un applauso di gioia. Una scena miserabile e umiliante per il nostro paese.
La domanda che sorge spontanea è: “Perché non è stata approvata questa richiesta di legge?” Sono stati tre gli articoli contestati: identità di genere, pluralismo delle idee e giornata contro l’omofobia.
Il ddl Zan è sempre stato sostenuto da persone di fama mondiale, esempi sono:
-Fedez che esprime la sua opinione riguardo l’argomento sul palco del concerto del Primo Maggio. Si scaglia apertamente contro la Lega, riportando alcune delle tante frasi di stampo omotransfobico espresse dagli esponenti del partito.
-Lady Gaga ospite al programma “Che tempo che fa”, ha espresso la sua opinione:
 

“Volevo dire una cosa alla comunità LGBTQ+ in Italia: siete i più coraggiosi, siete i più gentili, siete un'ispirazione e che succeda una cosa di questo genere dobbiamo gridare al disastro. Voi dovete, invece, essere protetti, a tutti i costi, come tutti gli esseri umani che vivono su questa Terra. Io continuerò a scrivere musica per voi, e, cosa più importante, cercherò di lottare per voi”.
-I Maneskin a Budapest, hanno affermato che in un anno di successi italiani in tanti campi si è dovuto assistere all'affossamento del ddl Zan: “Peccato per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro, e invece per noi sarebbe stata la vittoria più importante”.                        

Simone Pillon, senatore della Lega, afferma che: “L’Italia è a un grande bivio della storia. I Paesi che hanno scelto le folli ideologie Gender stanno tornando indietro. Forse noi riusciremo a fermarci prima”

 L’Italia è un paese arretrato, basta pensare che è l’unico paese dell'Europa occidentale senza riconoscimento egualitario del matrimonio e che non riconosce l’adozione di coppie gay a livello legislativo.

 L'affossamento del ddl Zan non ci ferma, continueremo a lottare sempre per i nostri diritti.                                                                                                                                             

Giulia Pallonetto
IIIA
Francesca Vallozzi
IIIA
Noemi Buonaurio IE

Il 22 settembre 2021 il Consiglio dei Ministri e il Presidente della Repubblica hanno approvato il DL relativo al green pass in ambito lavorativo, con disposizioni operanti dal 15 ottobre al 31 dicembre. Questo decreto interessa dipendenti privati e pubblici, collaboratori domestici, lavoratori autonomi e P.IVA. Si nega così l’accesso sul luogo di lavoro a chiunque sia sprovvisto di green pass, per tutelare la salute e la sicurezza di tutti i lavoratori. Questi vengono considerati “assenti ingiustificati” fino alla presentazione della certificazione, mantenendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro senza essere retribuito.

Il principale obiettivo di questa misura restrittiva è aumentare il numero delle persone vaccinate dopo il calo delle somministrazioni e limitare la diffusione del virus, mediante il controllo degli eventuali non vaccinati, tenuti a sottoporsi a tamponi per poter svolgere le loro attività. Tuttavia, anche se il 14 ottobre è avvenuta una leggera crescita delle vaccinazioni (le prime dosi somministrate sono state 76.697), nei giorni successivi questa è bruscamente calata, tanto che il 28 ottobre le dosi somministrate sono state 19.583. È evidente quindi che lo sperato “effetto green pass” non c’è stato, anzi ad aumentare è stato il numero di tamponi effettuati ogni giorno.

Questo provvedimento, dunque, quanto funziona nel mondo del lavoro?

Esemplare è il caso del porto di Trieste: più del 20% dei lavoratori portuali non è vaccinato e, quindi, privo di green pass.

A ridosso dell’entrata in vigore del DPCM del 15 ottobre, i lavoratori del porto di Trieste si sono mobilitati in maniera compatta, vaccinati e non, per esprimere il loro dissenso verso il green pass, annunciando il blocco delle operazioni portuali. Compromettendo l’operatività degli scali, hanno mandato in tilt un settore di fondamentale importanza nell’economia del Paese. Trattandosi del settimo porto in Europa per scambio totale di merci, del primo terminal petrolifero del Mediterraneo e del primo porto ferroviario d’Italia.

L’iniziale risposta a questo sciopero da parte del Governo, lasciava intendere che si non aveva alcuna intenzione di modificare la linea di fermezza adottata fino a quel momento per contrastare le proteste novax. Ma, poco dopo, è stata emessa dal Viminale una circolare per sottolineare che: “in considerazione delle gravi ripercussioni economiche che potrebbero derivare dalla paventata situazione anche a carico delle stesse imprese operanti nel settore, si è raccomandato, di sollecitare le imprese acchè valutino di mettere a disposizione del personale sprovvisto di green pass test molecolari o antigenici rapidi gratuiti”.

Di fronte al rischio di ingenti perdite economiche il nostro Paese ha quindi deciso di fare un passo indietro rispetto alla politica adottata fino a quel momento, anteponendo alla salute e alla sicurezza dei lavoratori il bene dell’economia. È stato richiesto alle strutture portuali di distribuire gratuitamente tamponi per i dipendenti non vaccinati, così da permettere che le operazioni rientrassero in funzione.

Questa concessione, fatta solo ai lavoratori portuali, sottolinea la tendenza del nostro Paese a dare maggiore importanza all’economia piuttosto che alla salute dei lavoratori. I tamponi gratuiti (e, quindi, il green pass) vengono concessi solo alle categorie di lavoratori da cui si può trarre un profitto economico maggiore, lasciando in disparte gli altri, costretti a provvedere ai costi dei tamponi a proprie spese.

Seguendo questa linea politico-economica, si giunge alla creazione di due fasce di lavoratori in balia delle decisioni dello Stato: quelli di serie A, a cui è concessa la possibilità di avere tamponi gratuiti per continuare a lavorare; e quelli di serie B, che non sono essenziali per l’economia del Paese e non possono usufruire di questo “servizio”.

Il green pass, dunque, rappresenta una valida ed efficace risoluzione temporanea per la situazione sanitaria (la diminuzione dei casi Covid, il calo dei posti occupati nelle terapie intensive e la spinta data alla campagna vaccinale), ma non è infallibile. Questo, infatti, ha dimostrato di essere anche uno strumento che, in ambito lavorativo, lede il diritto dei lavoratori di essere trattati nella stessa misura e diviene, invece, proporzionale al vantaggio economico che una singola classe di lavoratori porta all’economia dello Stato, risultando così un beneficio per le finanze del Paese, ma non del lavoratore.

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