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“LA MIA VITA È UNA PRIGIONE”:
LA STORIA DI MARIO

Andrea Sofia Luciano

IIIB

                            

Mario, nome di fantasia scelto per preservare la sua privacy, ha 43 anni ed è un uomo di origini marchigiane, tetraplegico, immobilizzato da 10 anni dalle spalle in giù a causa di un grave incidente stradale che gli ha provocato la frattura della colonna vertebrale con conseguente lesione del midollo spinale. Mario vive una condizione di una perpetua sofferenza che lo portò a chiedere più di un anno fa la verifica da parte dell’Asur delle sue condizioni di salute per poter accedere legalmente alla somministrazione di un farmaco letale, il Tiopentone.

 

"Dopo il diniego dell'Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche, una prima e una seconda decisione definitiva del Tribunale di Ancona, due diffide legali all'Asur Marche, Mario ha finalmente ottenuto il parere del Comitato etico, che a seguito di verifica delle sue condizioni tramite un gruppo di medici specialisti nominati dall'Azienda sanitaria regionale, ha confermato che Mario possiede i requisiti per l'accesso legale al suicidio assistito". Mario dopo aver letto il parere ha commentato: "Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni".

 

Tuttavia, visti gli ulteriori ritardi e l’assenza di qualsiasi comunicazione relativa agli sviluppi del giudizio che il Comitato etico avrebbe dovuto emettere, il 15 novembre 2021 Mario si è visto obbligato ad inviare una nuova diffida per sollecitare la procedura. Il 23 novembre 2021 Mario ha ricevuto il parere del Comitato etico, che riscontra la presenza delle quattro condizioni stabilite dalla Corte costituzionale, rilevando al contempo l’impossibilità di potersi esprimere in merito al farmaco letale in quanto nessuna verifica era stata fatta sulle quantità e le modalità di somministrazione.

 

"Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, nessun malato ha finora potuto beneficiarne, in quanto il Servizio Sanitario Nazionale si nasconde dietro l'assenza di una legge che definisca le procedure" aggiunge Marco Cappato, Tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni. "Mario sta comunque andando avanti grazie ai tribunali, rendendo così evidente lo scaricabarile".

 

"Tale tortuoso percorso - chiarisce Cappato - è anche dovuto alla paralisi del Parlamento, che ancora dopo tre anni dalla richiesta della Corte costituzionale non riesce a votare nemmeno una legge che definisca le procedure di applicazione della sentenza della Corte stessa. Il risultato di questo scaricabarile istituzionale è che persone come Mario sono costrette a sostenere persino un calvario giudiziario, in aggiunta a quello fisico e psicologico dovuto dalla propria condizione. È possibile però che la decisione del Comitato etico consentirà presto a Mario di ottenere ciò che chiede da 14 mesi".

Importante diventa a questo punto un dato che viene sempre trascurato dai politici e dalla stampa: secondo le rilevazioni dell’Istat, ogni anno si registrano in Italia oltre mille suicidi di malati, per i quali giustamente si alza con forza la denuncia di giornalisti e politici, fino al Capo dello Stato. Tuttavia l’atto del suicidio vero e proprio è solo la punta dell’iceberg ed è preceduto da un travaglio di sofferenze senza fine per il malato e per tutti coloro che lo affiancano in questa tremenda e difficile decisione.

Questo accade perché in Italia non è consentita quella eutanasia che da anni è lecita in molti paesi del mondo. Attualmente in Italia l’eutanasia costituisce reato e rientra nelle ipotesi previste e punite dall’articolo 579 (Omicidio del consenziente) o dall’articolo 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) del Codice Penale. Al contrario, il suicidio medicalmente assistito in determinati casi e la sospensione delle cure – intesa come eutanasia passiva – costituisce un diritto inviolabile in base all’articolo 32 della Costituzione e alla legge 219/2017. Grazie alla campagna “Eutanasia Legale” promossa dall’Associazione Luca Coscioni, il 3 marzo 2016, per la prima volta nella storia del Parlamento italiano, è iniziato il dibattito sulle “Norme in materia di eutanasia” senza mai arrivare a una votazione. Nel gennaio 2019 il Parlamento ha ripreso il dibattito sotto la spinta della Corte costituzionale, ma anche questo si è arenato.

 

Dunque non si può far altro che sperare e lottare per un futuro in cui per milioni di malati la vita non diventi una prigione dalle catene troppo strette e in cui possa essere concessa loro una fine dignitosa, sollevandoli dalle sofferenze, senza aggiungerne altre.

L’UE NON CANCELLA IL NATALE 

Andrea Sofia Luciano

IIIB

                            

"L'UE cancella il Natale", "L'Europa vuole cancellare il Natale", "L'ultima follia: L'Europa cancella il Natale", "In Europa vietato dire "Natale" e perfino chiamarsi Maria": questi sono solo alcuni dei titoli di numerosi giornali online che all'inizio di questo mese discutevano del decalogo "Union of Equality", poi ritirato, promosso dalla relatrice e Commissario per l’uguaglianza dell’Unione Europea Helena Dalli. In breve, questo documento mirava a far diminuire le discriminazioni attraverso un uso più consapevole del linguaggio applicabile in molte categorie in cui un linguaggio che non sempre si rivela corretto viene utilizzato, come ad esempio in merito al gender, alla comunità LGBTQIA+, a proposito dell’etnia, l’età e riguardo anche il credo di una persona. Alcuni articoli di giornale riferiscono che secondo questo decalogo non si potrebbe più utilizzare la parola “natale” o che non ci si possa più chiamare "Maria" o "Giovanni", ovviamente queste informazioni sono risultate false, infatti il documento che le riporterebbe non afferma assolutamente questo.  Molte incomprensioni si sono verificate in conseguenza al fatto che tale documento non è stato tradotto in italiano, anzi è disponibile al momento solo in inglese: un esempio è il fatto che nel documento viene detto di cercare di riferirsi ai nomi propri di persona utilizzando “first name” o “forename” piuttosto che "christian names", formula erroneamente tradotta come "nomi cristiani” ma che in realtà significa "nomi di battesimo". Questo è solo uno dei fraintendimenti che ci sono stati in merito al decalogo, che tra l'altro non vieta assolutamente l’uso di alcune parole o espressioni, ma semplicemente invita ad un uso "più inclusivo" del linguaggio senza dare per scontato l'etnia, la religione, l'identità di genere o qualsiasi altro dato generale che riguardi una persona. La maggior parte di questi disguidi riguardano la parte del documento denominata” cultures, lifestyles or beliefs". Proprio per quanto riguarda quest' ultimo punto un altro critico del decalogo "Union of Equality" è stato il Papa che ha definito il documento: “anacronistico ed espressione di un laicismo annacquato, acqua distillata” capace di far fallire l'Unione europea. 

Insieme al Papa e alla Chiesa in generale vi sono state anche altre figure di spicco che si sono sentite in dovere di dare la propria opinione a proposito di tale documento; fra queste, anche alcuni esponenti della politica italiana come Matteo Salvini, che non si è fatto mancare i suoi soliti sfoghi su Twitter scrivendo: "Maria, Giuseppe. Viva il Natale. Sperando che in Europa nessuno si offenda” ed in un’assemblea della Lega ha aggiunto: "Un documento della Ue - in nome della 'lotta alla discriminazione' - invita a non dire Buon Natale, ma Buone feste. Se non li fermiamo, questi ci portano verso il nulla. Il documento è in inglese e sostiene che è meglio lasciare da parte il nome Mary, e di sostituirlo con Malika. O li fermiamo o questi ci portano verso il nulla. Buon Santo Natale a tutti" Anche Giorgia Meloni si è unita al suo collega e proprio come lui commenta su, rilanciando: “Per la Commissione Europea il Natale potrebbe risultare offensivo o essere poco inclusivo?” e poi continua invitando i suoi followers a scendere in piazza a Roma a festeggiare “Il Natale dei conservatori”. Questa serie di reazioni è stata scatenata in fondo dalla disinformazione, generata in gran parte dalla strumentalizzazione dell’argomento da parte di alcune testate giornalistiche con i loro titoli click-bait, esagerando ciò che veniva detto nel documento e anche a tratti travisando quanto in esso veniva evidenziato, non mettendo in conto l’effetto mediatico che questa azione ha poi comportato. Sono anche questi, dunque, i motivi per cui il documento è stato ritirato al fine di essere migliorato e rilasciato in seguito.

AIDS E HIV, TRA TABÙ E VERITÀ

Antonia Tarantino Laporta

IC

                            

Il 1° dicembre è la giornata mondiale contro l’AIDS, organizzata dal WAC (World AIDS Campaign). L’AIDS è una malattia infettiva causata dal virus dell’HIV, il quale riduce le difese immunitarie dell’organismo. L’HIV in caso di sieropositività si può trovare nel sangue, nel liquido seminale, nei fluidi vaginali e nel latte materno. Esso non solo si diffonde tramite il sesso non protetto, sia tra eterosessuali che omosessuali, ma anche mediante siringhe infette, sangue infetto a seguito di trasfusione di sangue o organi, oltre alla trasmissione congenita da parte di una madre sieropositiva alla prole. Da sottolineare è il fatto che il virus NON si trasmette tramite saliva, baci, contatti con la pelle, animali o punture di insetti. Nonostante siano passati settant’anni dalla scoperta del primo caso, non è ancora stato trovato un vaccino o una cura per la malattia. Esistono, però, dal 1996 vari trattamenti che possono rallentarne lo sviluppo, che riducono la mortalità e l’epidemia del virus. Gli studiosi hanno diviso le fasi dell’infezione in tre parti: Fase 1-infezione primaria acuta, mal di testa, febbre, dolore muscolare, gola infiammata, eruzione cutanea Fase 2-fase asintomatica, i soggetti infetti non sentono dolori, anche per lunghi periodi di tempo (7-10 anni), ma continua a rigenerarsi nel sangue e nell’organismo Fase 3-infezione sintomatica, perdita di peso, estrema sudorazione, febbre, malattie gravi, problemi alla bocca e alla pelle, morte. Ovviamente, non bisogna pensare che se si ha uno di questi sintomi, si è automaticamente sieropositivi. Per verificare ciò, infatti, vi sono test specifici che riescono a dare risultati affidabili. L’AIDS è tutt'altro che debellato, specie nell’Africa Subsahariana e l’Est Europa; difatti, la sindrome da HIV è diventata endemica nei paesi sviluppati, dove è crollato il numero di decessi, ma non quello dei contagi, mentre è ancora uno dei più gravi fattori di mortalità nei paesi in via di sviluppo a causa di gravi problematiche sociali, etiche, economiche e organizzative. L'OMS riporta siano 37,9 milioni le persone che vivono con il virus HIV e ci siano state 1,7 milioni di nuove diagnosi. Le prime testimonianze dell’HIV provengono da pazienti africani negli anni ‘50, in seguito al contagio da altre specie di primati infetti. L’epidemia però sarebbe partita molto prima, nel 1920, dall’attuale RD del Congo.

Federico Cipolla

IIIB

L'adattabilità del virus, l'incremento della popolazione, lo sviluppo dei trasporti, la prostituzione, la presenza di altre malattie infettive e l'abitudine di utilizzare negli ospedali siringhe non sterilizzate, furono tutti fattori che contribuirono a portare il virus negli altri Paesi africani. Alla fine degli anni ‘70, l'AIDS ha iniziato a diffondersi esponenzialmente. Gli intensi scambi commerciali e turistici con aree non ancora colpite e l'uso di sangue inconsapevolmente infetto a scopo trasfusionale hanno contribuito alla diffusione dell'infezione da HIV in tutto il mondo all'inizio degli anni ‘80. Gli aspetti sociali di questa malattia sono fondamentali nell'esperienza dei soggetti coinvolti e nella loro relazione con il prossimo. Infatti, la diffusione dell'AIDS è sorta insieme ad un insieme di pregiudizi e condanne morali sui comportamenti degli individui colpiti. Anche nel contesto attuale, purtroppo, sono ancora presenti discriminazioni come ad esempio nel mondo del lavoro. Il contagio è associato a comportamenti etichettati come trasgressivi (promiscuità, omosessualità, consumo di droghe). Nella società civile la persona che ha contratto l'infezione da HIV è stigmatizzata come portatrice di una malattia “giudicata”: molti non sanno come rapportarsi con persone infette, quali siano i rischi e i non-rischi, facendo così prevalere un diffuso senso di paura verso "il diverso". Tale atteggiamento viene percepito appieno dai contagiati che sono costretti a vivere la loro condizione in stretta clandestinità. La difficoltà nel condividere con altri il proprio stato, i problemi che ne derivano, sono tra le cause di maggior sofferenza di chi è portatore del virus, oltre a essere un grosso rischio per chi non ne è affetto. È per questo che il 1° dicembre è fondamentale come giornata internazionale: è vitale, infatti, che ci sia maggior consapevolezza e sensibilizzazione sull’argomento affinché esso non torni a terrorizzarci come quarant’anni fa.

LO SPOT CHE RIDICOLIZZA I LAVORATORI

Marcello Gemma

IIIC

                            

Con la fine del mese di novembre e l’inizio di dicembre abbiamo avuto l’opportunità di assistere ad uno degli spot più controversi degli ultimi anni. Stiamo parlando ovviamente dell’ultima trovata pubblicitaria del Parmigiano Reggiano (accompagnata pochi giorni dopo la polemica da altri spot come quello di Amazon e McDonand’s), la quale per promuovere il proprio prodotto ha realizzato un cortometraggio il quale vede come protagonisti un gruppo di ragazzi giovani chef che hanno l’opportunità di conoscere il prodotto per filo e per segno, dalla sua creazione alla sua distribuzione. La scena incriminata è quella in cui i ragazzi hanno modo di rapportarsi con uno dei caseari, Renatino per l’appunto, complimentandosi per la sua devozione al lavoro e rimanendo rapiti dalla mancanza di Renatino di esperienze non concernenti il lavoro («L’unico additivo è Renatino, che lavora qui da quando aveva 18 anni, tutti i giorni, 365 giorni all’anno.»). Da qui la controversia, molte persone, anche giustamente, non hanno visto in quello scambio di battute la messa in risalto di un’idea di lavoratore che si sacrifica per l’azienda per cui lavora e per cui è fiero di lavorare, ma si è visto quello che goffamente si è cercato di mascherare, ovvero un’apologia dello sfruttamento. I ragazzi dall’alto del loro privilegio borghese fanno domande, non riuscendo neanche a pensare a come una persona non abbia il tempo o la disponibilità economica per visitare Parigi, tutto ciò poi culmina con forse la domanda più imbarazzante, fuori luogo e anche deridente che si possa fare in quel contesto, «sei felice?»;

Giorgio Saggiomo

IIIC

la completa insensibilità, che per quasi tutto il cortometraggio risulta innaturale, non fa altro che far scadere il tutto come già detto in precedenza in una grande apologia dello sfruttamento. Ora c’è da chiedersi, com’è stato possibile che questa idea sia stata accettata da un team apposito e prodotta senza che nessuno facesse notare non solo la controversia gigantesca che avrebbe potuto creare (e che infatti ha creato), ma anche e soprattutto la totale mancanza di empatia e la completa alienazione nei confronti dei lavoratori che si vede in questo spot? Questo spunto ci aiuta a rinvangare un concetto che forse diamo troppo per scontato, ovvero l’importanza dei diritti dei lavoratori e del lavoratore in sé, materie per cui questo paese ha concentrato anni ed anni di dibattito pubblico. Tutto arriva alla situazione di oggi, in un mondo colpito duramente dalla pandemia, dove molti perdono ogni giorno il posto di lavoro per via della crisi, dove i sindacati spesso si dimostrano irrilevanti o inconcludenti, per non dire collusi con chi dovrebbe fronteggiare, una persona è anche costretta a sentirsi trattata come un’attrazione turistica locale. Magari prima di produrre delle cose che possono scadere in pesanti controversie e dibattiti, per le aziende sarebbe opportuna una riflessione sul mondo del lavoro ma soprattutto un contatto con tale realtà.

Articoli del 5 dicembre

PERCHÉ È NECESSARIO IL 25 NOVEMBRE?

Ludovica Cavallo

IC

                            

Anche quest’anno è arrivato il 25 novembre, e con lui si ripropongono le intramontabili “polemichette” da bar: “il femminicidio è un semplice omicidio, a cosa serve specificare” “Quindi le uccisioni delle donne sono più gravi di quelle degli uomini?” “Anche le donne uccidono”. Ormai conosciamo la cantilena e non si contano le volte in cui abbiamo dovuto spiegare che “femminicidio” indica il movente, non la vittima, ma continueremo a ripetere all’infinito quanto sia necessaria questa giornata, quanto sia importante sensibilizzare sull’argomento e continuare a combattere. Introdurre la parola “femminicidio” significa dare un nome alle cose, creare un fenomeno laddove c’erano solo singoli avvenimenti, dare una parvenza di giustizia alle centinaia di migliaia di donne uccise non a caso, ma in quanto donne nate in una società che ancora sprizza patriarcato da ogni poro.

Da due anni ormai, alla violenza di genere è stata data una spinta non irrilevante: covid-19, scientificamente il nome del virus che ha stravolto la vita di tutti gli abitanti del pianeta, è un termine che ormai non si attiene solo alla sfera puramente medica, ma rimanda a centinaia di significati diversi. C’è chi sentendo covid-19 pensa al lockdown, chi alle bare che nell’angoscia generale giravano per le strade di Bergamo, ma raramente si pensa al numero di femminicidi compiuti in epoca pandemica.

Le continue restrizioni al lavoro delle ONG devono essere rimosse e i loro interventi devono essere riconosciuti quali attività che rispondono all’imperativo umanitario di salvare vite umane. Il soccorso dei naufraghi è un obbligo imposto dal diritto internazionale, recepito dalla Costituzione (art.10) e non può qualificarsi come agevolazione dell’immigrazione irregolare.

Mariateresa Cesare IIIA

                                                      

Le continue restrizioni al lavoro delle ONG devono essere rimosse e i loro interventi devono essere riconosciuti quali attività che rispondono all’imperativo umanitario di salvare vite umane. Il soccorso dei naufraghi è un obbligo imposto dal diritto internazionale, recepito dalla Costituzione (art.10) e non può qualificarsi come agevolazione dell’immigrazione irregolare. Nel 2020 i dati relativi alla violenza domestica sono schizzati alle stelle, complici le chiusure statali che privavano le vittime delle poche vie d’uscita che avevano. Stando al report dell’Istituto di ricerca, nel primo semestre del 2020 i femminicidi sono stati quasi la metà del totale degli omicidi (il 45%): il 10% in più rispetto ai primi sei mesi del 2019, quando la percentuale era del 35%. Inoltre, nei due mesi di confinamento più duro – quelli tra marzo e aprile -, i femminicidi hanno raggiunto un picco del 50%. Nel 90% dei casi gli assassini erano membri della comunità familiare, e nel 61% si trattava di un partner o ex partner, spesso, quindi, persone con cui le vittime passavano le loro giornate in quarantena. A regnare sovrana è la paura diffusa tra le donne vittime di abusi: solo il 14,2% delle vittime che hanno chiesto aiuto al 1522 (centralino del dipartimento per le pari opportunità) ha poi effettivamente denunciato le violenze e in molti casi anche le denunce effettuate sono poi state ritirate dalle vittime.

ACCADEMIA DELLA CRUSCA E LINGUAGGIO INCLUSIVO

Elena Foccillo IB

Negli ultimi tempi sono state sollevate molte polemiche riguardo l'uso del linguaggio gender neutral nella lingua italiana, legato alla crescente attenzione rivolta all'inclusione di persone che non si identificano in un genere binario. Sono state pertanto rivolte molte richieste all'Accademia della Crusca al fine di trovare desinenze alternative rispetto a quelle maschili e femminili. A differenza di altre lingue, infatti, l'italiano è privo del genere neutro e le uniche parole davvero neutre sono gli aggettivi che terminano in e (divertente, affascinante ecc.). È pur vero che a volte le persone non- binary/ genderfluid (due generi non conformi al binarismo di genere) per sopperire a questa mancanza fanno uso di maschile/femminile o di entrambi. Questa però non è una soluzione definitiva dal momento che c'è chi non si sente a proprio agio usando queste terminazioni. L'Accademia della Crusca ha pubblicato la sua risposta a tali richieste il 24 settembre e ha incluso tutte le possibili proposte (l'uso della schwa, dell', della u). Innanzitutto Paolo d'Achille (autore dell'articolo qui citato) evidenzia l’esistenza di forme di cortesia indipendenti dal genere (il lei e il voi) e del maschile come genere non marcato, tutto per dire che il genere grammaticale non coincide con quello di una persona, cosa che in questi casi è vera, ma non ha un’applicazione estesa all’interno della lingua italiana, essendo limitata a queste poche forme. Poi l'accademico controbatte alla proposta di usare lo schwa. Per chi non lo sapesse lo schwa è un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità; spesso, ma non necessariamente, una vocale media-centrale; come lo definisce la Treccani.

Essendo un suono estraneo alla pronuncia (anche se si ritrova nei dialetti meridionali) e alla grafia italiana è stato preso in considerazione come alternativa neutra. Lo stesso vale per l'asterisco che però sarebbe problematico sul piano fonetico,ma non su quello grafico. Al di là delle incongruenze fonetiche e di sintassi, però, esiste un problema di fondo che risiede nel tentativo di mantenere la lingua italiana pura, un obiettivo che per quanto “nobile" possa essere ritenuto, non è possibile realizzare. La lingua, non solo quella italiana, è difatti in continuo mutamento e seppure dal punto di vista tecnico e scritto questi escamotages non saranno implementati resteranno in uso nella lingua parlata. Questo perché non importa quanto si cerchi di mantenere le regole della lingua intatte, alla fine la lingua è plasmata da chi la parla. Basti pensare ad anglicismi e francesismi inclusi persino nei dizionari, che sicuramente non sono conformi a sintassi e regole della lingua italiana. Le soluzioni proposte sono sicuramente imperfette ma ciò non ne dovrebbe impedire del tutto l’uso. Lo scopo del dibattito riguardo il linguaggio inclusivo non è accusare chi sostiene idee diverse di discriminazione, né di eliminare l'uso delle desinenze maschili e femminili, ma di conciliare la lingua italiana con le necessità di coloro che la parlano. Visto che il cambiamento è inevitabile, perché non renderlo possibile?

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