top of page

2019-2020: i nostri articoli

LA PAROLA DELLA DEMOCRAZIA IN QUARANTENA

Camilla Panniello
2E

Trenta marzo 2020.Il Primo ministro ungherese Viktor Orbán assume pieni poteri. A legittimarlo costituzionalmente è il parlamento nazionale, reduce di due sedute di votazione. Il progetto della “delega in bianco” (ovvero senza il controllo dell’opposizione Orzàggylès e dei contrappesi costituzionali) viene presentato inizialmente a metà mese, ma i piani non percorrono la via prevista. Orbán inciampa infatti nell’ostacolo della difficoltà di raggiungere il quorum dell’80%, troppo alto persino per Fidesz, il partito nativo, che conta come membri circa due terzi del parlamento ungherese. Nonostante l’aporia iniziale, il politico di estrema destra non si ferma e ripropone il decreto, che nella seconda votazione ottiene la sua vittoria, raccogliendo 137 voti a favore e 53 contrari. La riforma passa e, tra i provvedimenti varati con il decreto, oltre al coprifuoco già in vigore, vengono aggiunti l’intervento militare per dirigere e far funzionare le imprese strategiche ed i servizi essenziali e, soprattutto, pene detentive di cinque anni per i giornalisti freelance che diffondono notizie false. Le opposizioni, però, non mancano: “Lei ci sta chiedendo poteri speciali senza limiti, un caso che non ha precedenti in Europa. Lei vuole mano libera per eliminare anche ciò che resta della libertà di opinione” afferma la deputata di dialogo Timea Szabo in merito al rifiuto di Orbàn della proposta dell’opposizione di limitare il suo governo a un tempo definito di 90 giorni e preferendo, al contrario, un tempo indefinito. Il ministro per l’Amministrazione pubblica, Csaba Donmotor si affianca alla nuova politica ungherese, affermando che la necessità di non porre limiti è dettata dall’andamento improbabile e indefinito della stessa battaglia alla pandemia.

COSA PENSANO GLI EUROPEI?

Italia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Belgio, Francia sono solo alcuni degli stati che hanno firmato una dichiarazione congiunta perché preoccupati per questa instabile riforma, un probabile rischio di “violazione dello stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali”. La richiesta dei tredici paesi firmati UE è quella che le misure emergenziali siano “di natura proporzionata e temporanea (…)” e che vengano rispettati “i principi degli obblighi internazionali” con il richiamo ad evitare l’emarginazione della libertà di stampa e di espressione. A controllare l’evoluzione della situazione ungherese è la Commissione Europea. Quella europea è una risposta che contrasta certamente anche la posizione della ministra della giustizia Judith Varga, che già dalla Lettera ad Euronews di novembre 2019  affermava la necessità che “Bruxelles assuma il controllo in settori di cui non ha competenza” dal momento che lo stato di diritto non è un principio costituzionale e che, per l’articolo 4 del trattato, l’Unione si trova a dover rispettare le identità nazionali -intrecciate con le loro Costituzioni- degli Stati membri. Diverse dunque possono essere per ogni stato, secondo la ministra, le posizioni da assumere nelle numerose questioni. Ma gli Europei non sono convinti: l’Ungheria pare non aver rispettato né i criteri di Copenaghen (tra cui democrazia, stato di diritto e diritti umani) con l’accentramento dei poteri nelle mani di un singolo, né la Legge Fondamentale del 25 aprile 2011 (Articolo B: L’Ungheria è uno stato di diritto indipendente e democratico e la fonte del potere pubblico è il popolo.) Non c’è più divisione e condivisione, il dialogo, la trasparenza e la libertà di informazione sono state messe all’angolo: la democrazia è stata smantellata.

UNA POLITICA DAL PASSATO PROBLEMATICO/CONTESTATO

Qual è il motivo per cui, però, gli stati europei si dichiarano così preoccupati?

La campagna politica di Orbàn non si è mai mostrata benevola e giusta agli occhi dei più e le costituzioni del 2011 e del 2013 ne sono un esempio tangibile. Della seconda costituzione, alcuni dei punti centrali toccano senzatetto, a cui è stato vietato di indugiare negli spazi pubblici, oppure le famiglie omosessuali, unmarried o senza figli, che non sono state definite tali e non possono dunque beneficiare degli stessi diritti ed agevolazioni delle altre famiglie. Inoltre la libertà di espressione è limitata per i giornalisti, la cui parola non deve andare ad intaccare la “dignità nazionale ungherese” e per radio e tv private, in cui i dibattiti elettorali sono stati vietati e la loro frequenza vittima di diversi tagli. Neanche gli studenti universitari potranno espatriare dopo la laurea, pena pagamento delle spese superiori e il vecchio partito di opposizione comunista, diventato poi Partito Socialista, è stato definito organizzazione criminale. L’opposizione però non manca di certo, le organizzazioni ungheresi per i diritti civili e i partiti dell’opposizione hanno infatti trascorso settimane, con altre migliaia di persone, a manifestare alle porte del palazzo del parlamento a Budapest (come testimonia il giornale tedesco Der Spiegel in un articolo dell’undici marzo 2013).

WhatsApp Image 2020-03-31 at 2.19.28 PM.

Una libertà di espressione limitata da tempo, e con lo scalpello più che con il martello; esiste, infatti, un solo canale televisivo ungherese (Rtl Klub, di proprietà tedesca) che non sia stato comprato dal governo; tutti gli altri, sono dal 2015 di proprietà di Andy Vajna, vicino ad Orbán. Dal 2016, inoltre, anche la stimata rivista economica Figyelo appartiene al governo.

Orbán si è imposto anche sulla sfera costituzionale, limitando i poteri della Corte al semplice compito di pura revisione formale della Costituzione e privandola dunque il diritto e il dovere di giudicarne i contenuti; ma non solo: anche i giudici non potranno più richiamarsi a loro sentenze sul Diritto costituzionale ed europeo emesso prima della Costituzione voluta da Fidesz e in vigore dal 2012.

FINO A CHE PUNTO POSSIAMO DEFINIRCI LIBERI?

Mistero. Quanta libertà ha un Primo Ministro di imporre come pena il carcere per coloro che diffondo fake news, quando per primo ha affermato di non aver ricevuto alcun sostegno economico da parte dell’UE, sebbene questa abbia donato all’Ungheria una somma pari a circa 4.330 corone danesi (570 euro) per ognuno dei suoi circa 10 milioni di abitanti? Quanta libertà ha lo stesso ministro nell’affermare che il liberalismo non ha funzionato, nel definire la sua come una “democrazia illiberale”, quando per primo è stato artefice di una politica economica che ha portato a svalutare il fiorino? Quanta libertà ha e deve avere l’Unione Europea nell’intervenire nelle questioni nazionali di ogni stato? Quanta ne ha e ne deve avere un giornalista, o un semplice cittadino?

La parola è sacrosanta, perché in questa si nasconde l’essenza più vera del pensiero umano e la sua contestualizzazione è un dovere etico, più che economico. È il lasciapassare per un’unione ora frammentata e sgretolata, è la capacità di definire, di avere un pensiero critico; d’altronde, la parola criticare deriva dal greco “κρινω”, ovvero dividere per poi scegliere e criticare, giudicare. Giudicare il “bene” e il “male”, due termini che necessariamente devono essere racchiusi in virgolette perché eterni e nel loro infinito caleidoscopio di definizione si rivelano impossibili da definire con specificità. Impossibili da giudicare. Impossibili da riconoscere. In un periodo in cui a governare è il capitale, che ammanta del suo offuscante velo la mente umana, anche la parola assume un valore ambiguo e per questo è necessario riconoscerlo.

Anche se non sono più gli anni della Germania nazista, ci troviamo tra le mani quelli di un’Ungheria che -nell’egoismo e nazionalismo mascherati di sicurezza- vieta i cambiamenti di sesso alle persone transgender; un’Ungheria che gioca questa partita annientando i suoi compagni di squadra, un’Ungheria che si isola in un momento in cui la collaborazione è più che necessaria.

L’unico nostro strumento di ribellione e che azzera le differenze e le distanze nel periodo del “metro e mezzo” rimane, così, la parola, perché pura, perché essenziale, perché imprescindibile dai concetti di bene e male. Che possa essere per noi il coltello di questa divisione per discernere, che sia sempre critica, così da essere garante e custode della libertà.

ILVA: QUANDO L’INDUSTRIA UCCIDE

Romualdo Marrone
3C

Il caso Ilva di Taranto costituisce la punta dell’iceberg di una profonda crisi del sistema economico italiano, oramai reso agonizzante, boccheggiante, capace a stento di soddisfare i bisogni minimi di un’intera popolazione. Esso ripropone, dunque, la questione fondamentale, nell’ampio ambito di gestione e amministrazione dello Stato, che ha attraversato e continua ad attraversare l’età moderna a partire dallo sviluppo del moderna economia mondiale: attraverso quali modalità e, soprattutto, in che misura lo Stato debba intervenire. L’ampio dibattito che ne è scaturito, dalle teorie liberiste del diciottesimo secolo agli ardenti sostenitori del pieno intervento statale in ambito economico, passando per posizioni intermedie e più moderate, non ha condotto ai risultati sperati: una soluzione pratica che possa porre fine alla crisi dei settori produttivi. Un progetto, quello di individuare una soluzione comune che possa essere applicata in ogni singola situazione contingente, piuttosto utopistico, si potrebbe obiettare. Ebbene, se la realtà ci costringe a restringere il campo visivo, quantomeno potremmo auspicare all’individuazione di una soluzione che possa risollevare in parte i nostri esigui  settori produttivi.

Nonostante la querelle fra i sostenitori delle teorie liberiste, protezionistiche e di capitalismo di stato, il problema pratico perdura: l’acciaieria Ilva è minacciata dall’ombra di una chiusura incombente. Questo a causa della volontà espressa dal nuovo gruppo industriale che nel 2018 ha rilevato l’azienda di retrocedere dal  contratto stipulato con il MiSE, il Ministero dello Sviluppo Economico. Il colosso industriale in questione è l’Arcelor Mittal, azienda indiana con sede in Lussemburgo, con un fatturato annuo che supera i 70 miliardi di dollari e che, all’attivo, conta 209.000 dipendenti. La decisione di abbandonare lo stabilimento pugliese è stata impugnata a seguito dell’approvazione del “Decreto Imprese”, che prevede, a partire dal 3 Novembre 2019, il ritiro dello “scudo penale”, vale a dire una specifica tipologia di immunità penale concessa dallo Stato all’acquirente dello stabilimento, in tal caso il colosso Arcelor Mittal, necessaria a quest’ultima per “attuare il proprio piano ambientale” senza incorrere in alcun rischio di ripercussione dal punto di vista giudiziario. Ça va sans dire che, con ogni probabilità, lo scudo penale fosse funzionale al protrarsi di quella condotta di gestione di impresa che ha portato, nell’arco degli anni, all’inquinamento dell’area pugliese e ad un aumento esorbitante di casi di tumori al polmone e di morti legate all’insorgenza di malattie del sistema respiratorio. Il report pubblicato dallo studio epidemiologico Santieri, dunque né dall’ex Ministro della Salute Giulia Grillo né dall’ex Ministro dell’Ambiente Costa, mostra l’insorgenza di 173 casi di tumori maligni nel complesso delle età considerate (0-29 anni), dei quali 39 in età pediatrica e 5 durante il primo anno di vita. Si riscontra inoltre un eccesso del 90%  nel rischio di sviluppo del linfoma non-Hodgkin e un eccesso del 70% nel rischio di sviluppare tumori del tratto tiroideo.

Inoltre, si è registrata la nascita di circa 600 bambini con malformazioni tra il 2002 ed il 2015. L’insieme di tutti questi dati farebbero presupporre un intervento corretto da parte dello Stato, che decide di revocare una garanzia di immunità per porre fine ad una clausola di contratto che tutela la produzione economica e non i cittadini tarantini, vittime, per usare un eufemismo, di una disarticolata attività di gestione aziendale. Meccanismo che potremmo paragonare, in termini che decisamente si avvicinano di più alla realtà fattuale, ad una politica che, al fine di incrementare i livelli produttivi, ha introdotto un’eccessiva quantità di gas inquinanti nell’atmosfera con ripercussioni a lungo termine sulla salute dei cittadini, un modus operandi dunque menefreghista e, considerate le specifiche responsabilità, immorale oltre che illegale. Arcelor Mittal dunque è intenzionata ad abbandonare lo stabilimento senza tale garanzia specifica. Questo comporterebbe la redazione di un piano di esuberi che raggiungerebbe un picco di 4700 nel 2023, di cui 2900 nell’immediato. Innalzandosi il rischio di incappare in questioni che attingano alla sfera dell’illegalità, quantomeno la contrazione dei posti di lavoro comporterebbe un discreto risparmio, e dunque secondo vedute più ampie, un moderato apporto di introiti per il colosso industriale indiano. Quello presentato al MiSE da Arcelor Mittal Italia "non è un piano industriale: è un progetto di chiusura al contempo di Taranto e di Ilva", ha commentato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, al termine dell'incontro al Ministero. Mentre il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha parlato di "catastrofe purtroppo annunciata". Si ripropone allora un’altra questione fondamentale: salvaguardare il sistema produttivo ed economico o la salute dei cittadini? C’è davvero da chiedersi allora che costi, in termini umani, siamo disposti a pagare in nome della produttività e perché sia  stato consentito così a lungo di operare ad un’azienda che non ottemperava alle norme per la sicurezza dei lavoratori e degli abitanti dell’area dov’era collocata? E chi pagherà ora i danni all’ambiente? Quello stesso Stato che avrebbe dovuto tutelarlo? Aldilà degli interrogativi, questa vicenda lascia emergere la necessità che non si possa più concepire uno sviluppo industriale senza il rispetto delle elementari esigenze di sicurezza e salute dei lavoratori, in quanto i danni in termini umani ed ambientali sono irreversibili e hanno un valore nettamente più alto rispetto a qualsivoglia profitto.

HONG KONG: TRA PROTESTE E STORIA

Alice Sommella
 4C
Ester Pisani
IA

articolo di

illustrazione di

Un fiume di manifestanti e ombrelli colorati, rimandano a una realtà di aperta opposizione politica, a cui raramente si è assistito nella Cina contemporanea. Le proteste iniziate ad Hong Kong il 9 giugno contro un emendamento alla legge sulle estradizioni, ufficialmente ritirata il 24 ottobre, si sono trasformate in un’opposizione all’ingerenza sempre più accentuata di Pechino nell’autonomia di Hong Kong. Le proteste vanno avanti ormai da 20 settimane. Nel corso di questi mesi le forze di polizia hanno utilizzato armi da fuoco e idranti contro i manifestanti – ferendo gravemente uno dei giovanissimi partecipanti alle proteste – nonostante il Capo Esecutivo della città, Carrie Lam, avesse garantito che misure esclusivamente legali sarebbero state attuate per reagire alle proteste. Gli scontri con la polizia avrebbero causato decine di feriti, Pechino ha definito la condotta dei manifestanti di Hong Kong vicina al terrorismo: un termine, quest’ultimo, che riporta a un’altra regione irrequieta della Cina, lo Xinjiang, evocato anche nelle “proteste antisorveglianza”.                                                                            Quello che sta accadendo sta attirando parecchie attenzioni per la particolare storia di Hong Kong: fino al 1997 fu controllata dal Regno Unito e governata secondo le sue leggi, poi passò sotto il controllo della Cina, che fin da subito iniziò ad essere molto presente nella vita politica del territorio. Dal punto di vista geografico, Hong Kong è composta dall’isola principale (chiamata appunto Hong Kong), dalla penisola di Kowloon, dai cosiddetti Nuovi Territori e da più di 200 altre isole, di cui la più grande è Lantau. Si trova circa duemila chilometri a sud di Pechino, affacciata sul delta del fiume delle Perle e sul Mar Cinese Meridionale. Ci abitano 7 milioni di persone, in poco più di mille chilometri quadrati, una superficie meno estesa della provincia di Vibo Valentia.                                                                                        Dal 1842, era stata una colonia britannica strappata all’Impero cinese dopo la guerra dell’Oppio. Inizialmente i britannici controllavano solo l’isola di Lantau, ma negli anni seguenti si espansero sulla terraferma e nel 1898 ottennero dalla Cina la cessione per 99 anni dei territori che corrispondono all’attuale Hong Kong. A parte il periodo della Seconda guerra mondiale, Hong Kong rimase per decenni sotto il controllo del Regno Unito, con un’economia aperta al capitalismo; il sistema scolastico era modellato su quello inglese, così come quello giuridico e legislativo. A Hong Kong una ricca comunità di europei conviveva con gli esuli cinesi scappati dall’avvento di Mao e del comunismo. 

Nel 1979, con la scadenza della cessione che si avvicinava, l’allora governatore di Hong Kong – lo scozzese Murray MacLehose –  cercò un dialogo con il presidente cinese Deng Xiaoping. Deng volle che Hong Kong venisse restituitaalla Cina. Nel 1984 il primo ministro cinese e quello britannico firmarono a Pechino la Dichiarazione congiunta sino-britannica: stabiliva che tutti i territori di Hong Kong sarebbero tornati a far parte della Cina a partire dal primo luglio 1997, e che la Cina si impegnava a non instaurare immediatamente il sistema socialista, lasciando invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni, fino al 2047. Il primo luglio del 1997 una grande cerimonia presenziata dal principe Carlo d’Inghilterra, dal primo ministro britannico Tony Blair e dal presidente cinese Jiang Zemin sancì la restituzione e la fine del dominio coloniale britannico su Hong Kong. Un movimento di protesta iniziò ad affermarsi negli ultimi anni, ma oggi sembra essere diventato più determinato, organizzato e bellicoso.                                

hong kong urlo 001.jpg

Le proteste contro l’emendamento (poi ritirato) alla legge sull'estradizione non rappresentano che un tassello di un più profondo attrito tra Hong Kong e Pechino in vista dell’avvicinarsi della data in cui l’autonomia di Hong Kong dalla Cina, negoziata dal Regno Unito nel 1997, volgerà al termine. Nel 2047 Hong Kong cesserà infatti di avere standard politici, economici e istituzionali diversi e più autonomi rispetto al resto della Cina. E Pechino ha già dimostrato l’intenzione di erodere, anche se in modo quasi impercettibile, il grado di autonomia di Hong Kong.

Nel 2014 Hong Kong era stata scossa da proteste durate quasi tre mesi. In quel caso, le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino di riformare il sistema elettorale di Hong Kong. Tale riforma, proposta e non adottata, è stata infatti percepita come una misura estremamente restrittiva dell’autonomia della regione, poiché ha comportato l’equivalente di una “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito Comunista Cinese (PCC). Il Capo Esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, è stata accusata più volte di aver intensificato le relazioni con Pechino da quando è in carica (2017), nonostante avesse più volte ribadito che la proposta di legge sull’estradizione dei mesi scorsi fosse stata lanciata su spinta della leadership della città e non da attori esterni.

Le contestazioni non sono quindi una novità nel panorama politico del paese. Al contrario, dal momento che i cittadini di Hong Kong non sono liberi di esprimere la propria preferenza elettorale, ma hanno il diritto di manifestare, le proteste sono uno strumento spesso adottato dalla società civile per far sentire la propria voce. In un momento in cui le disuguaglianze sociali sono particolarmente sofferte dai più giovani, i cittadini di Hong Kong percepiscono la classe politica e quella degli imprenditori come sempre meno rappresentative dei propri interessi e vicine a Pechino.

HARRY E MEGHAN: SUSSEX ROYAL

Elisabbetta Nunziale
IB

A distanza di ottant’anni da quando Edoardo VIII abdicò per sposare l’americana bi-divorziata Wallis Simpson, la duchessa di Sussex - forse ancora per poco - Meghan Markle, l’8 gennaio scorso ha fatto la cosa più rivoluzionaria che si sia vista negli ultimi anni in una Royal Family: si è dimessa dagli obblighi reali. E lo ha deciso di comune accordo con il marito, Harry, eguagliando per la prima volta i ruoli. Harry e Meghan hanno concordato di staccarsi da casa Windsor in funzione di una vita più tranquilla e per rendersi maggiormente indipendenti. Tra le novità annunciate sul loro profilo instagram “sussexroyal”, a seguito del cosiddetto “Megxit”, ci sono il loro trasferimento parziale in Nord America, le dimissioni da “membri senior” della famiglia reale e l’indipendenza economica. La coppia sta cercando, infatti, di registrare il marchio “Sussex Royal” come brand globale per una vasta gamma di articoli tra cui matite, segnalibri e abbigliamento. Meghan ha poi stipulato un contratto con “La casa di Topolino”, che devolverà i 3 milioni di dollari all’associazione ambientalista “Elephants without Borders”, che protegge gli elefanti; dunque, impegni e denaro non mancano. Il fatto, però, che la regina Elisabetta in una comunicazione ufficiale si sia riferita alla coppia esclusivamente come «Harry e Meghan», e solo in seguito li abbia definiti «i Sussex», potrebbe forse preannunciare l’intenzione, da parte della sovrana, di privare il nipote e la consorte del titolo; per i due sarebbe un bel problema “commerciale”. Un esperto degli affari di Buckingham Palace avrebbe riferito a “The Sun”, il primo tabloid ad anticipare i piani dei ribelli duchi di Sussex, che il comunicato non era stato condiviso con il resto dei Windsor: “La loro decisione non è stata chiarita con nessuno. Rompe tutti i protocolli. Questa è una dichiarazione di guerra alla famiglia. La regina è profondamente turbata. Il Principe di Galles e il Duca di Cambridge sono pieni di rabbia.

L’uscita doveva essere discussa ed elaborata”.  E infatti, mentre per i due giovani innamorati la questione sarebbe ormai chiusa, Buckingham Palace ha sottolineato che “queste sono questioni complicate che richiederanno tempo per essere elaborate".  Harry ha comunque dichiarato di voler continuare ad appoggiare la Regina e di non essere in conflitto con lei.

Meghan, dal canto suo, ha dimostrato presto di avere quel carattere che le sarebbe servito per non farsi schiacciare dal protocollo. La bambina che si rifiutava di indicare la propria razza nel questionario scolastico, la studentessa di 11 anni che scriveva a un’industria di detersivi colpevole di presentare sempre e solo donne intente a lavare i piatti, la giovane attrice che protestava per il sessismo delle sceneggiature è diventata una donna capace di percorrere la navata nuziale sotto gli occhi di mezzo mondo senza nessuno cui aggrapparsi. Nella sua navata immensa c’è tutto il cammino che hanno fatto le donne fino ad oggi. Meghan non si appoggia a nessuno e nessuno la consegna a nessuno; è lei stessa che, con la sua bellezza, forza, coraggio e determinazione, va verso il futuro marito. In quella sposa che rifiuta di dire “obbedirò” continua il cammino di liberazione di tante donne. Il principe Carlo la accoglie: non la consegna, ma la affianca, la accompagna. Rappresenta la parte del femminismo e del riscatto femminile più bella, quando la dolcezza rompe tradizioni e sottomissioni, quando si può andare con il viso velato verso l’altare ed essere libere nel cuore, nella testa e nell’amore. Si sono arresi tutti di fronte a questa donna, dimostrazione vivente del fatto che esistono uomini e donne che si possono unire e amare, mantenendo la fierezza di quello che sono al di là del colore della pelle.

TIK TOK E LA CENSURA

Mariateresa Cesare
IA

Già nell’ottobre 2018 , grazie alla  foto di un satellite e a successive indagini, furono portati alla luce abusi e violenze perpetuati dal governo ai danni della comunità musulmana cinese. 

La diffusione mediatica seguita a queste scoperte non fu però tale da fermare il fenomeno, tanto che il mese scorso il video di una diciassettenne americana ha riportato il problema sotto gli occhi di tutti.

Il video è stato pubblicato sul sempre più popolare social cinese Tik Tok, che permette la realizzazione di brevi filmati d’intrattenimento. Di ben diversa natura è il video di Faroza Aziz che ha finto un tutorial di make-up per sensibilizzare la giovane utenza riguardo i campi cinesi dove da anni vengono rinchiusi e costretti alla conversione migliaia di musulmani. 

La domanda che vorrei porvi a questo punto è: perché fingere di trattare un altro argomento? Perché non realizzare un semplice video d’informazione? 

Non è la prima volta che Tik Tok cancella video innocui a sfondo politico e non solo, il social ha, infatti, nelle sue linee guida il divieto di “propaganda politica”, restrizione comprensibile vista la giovane età degli utenti, fino a quando non ci si accorge che ad essere  cancellati sono sempre i video considerati più “scomodi” come quelli a favore della comunità LGBT+, mentre gli account di vera propaganda, come quello di Matteo Salvini, restano illesi.

Il social cinese è perciò stato più volte accusato di censura, fino ad essere costretto a scusarsi pubblicamente, affermando che la scelta di non mostrare determinati contenuti aveva lo scopo di proteggere l’utenza da cyber-bullismo; non sarebbe stato più semplice oscurare i commenti d’odio?

Tornando agli avvenimenti di ottobre, il video della giovane americana è stato cancellato, così come il suo profilo, poche ore dopo la pubblicazione, nonostante non violasse alcuna linea guida e non avesse scatenato alcuna reazione negativa nell’utenza. 

I motivi di questa scelta si comprendono sapendo che la Bytedance, l’azienda proprietaria di Tik Tok,  è cinese. 

Il video è stato oscurato per circa un’ora e gli addetti stampa del social hanno porto le scuse dell’azienda  a Feroza Aziz, affermando che la cancellazione del video fosse dovuta a un video satirico pubblicato su un vecchio account della ragazza e non fosse in alcun modo correlato al tema dei campi cinesi. 

Feroza, così come molte altre persone, è stata dura nel rifiutare le scuse, trovando poco credibile che la censura del suo video di denuncia fosse del tutto casuale e non volta ad evitare la diffusione del messaggio che la ragazza voleva comunicare.

 Tik Tok vieta la “propaganda politica”, non la sensibilizzazione riguardo ad un tema del tutto ignorato dalla comunità occidentale, ed ecco che il semplice video di Feroza Aziz   ha generato un’enorme risposta mediatica, maggiore di qualsiasi articolo di giornale scritto nel 2018 su questo tema.

Appare quindi chiaro come Tik Tok scelga quali video non mostrare in base a criteri del tutto arbitrari e non strettamente legati a delle linee guida precisamente definite, come accade per la maggior parte dei social. Perché allora una ragazza americana ha scelto proprio un social che censura determinati contenuti per lanciare questo tipo di messaggio? Perché non scegliere un social più libero?

La risposta si trova nell’algoritmo di Tik Tok che permette a tutti di visualizzare video di altri utenti anche senza seguirli o doverli cercare permettendo una maggiore diffusione dei contenuti.

Nonostante il tentativo dell’azienda di eliminare il video, questo è stato ripubblicato da migliaia di utenti e ha fatto il giro del web riscuotendo l’interesse di migliaia di persone.

LA GUERRA DELL’UOMO CONTRO I NEMICI INVISIBILI: L’ITALIA È LA GRANDE SCONFITTA IN EUROPA

Maria Laura Basso
2F

Il 18 novembre 2019 è stata celebrata in Svezia la Giornata Europea degli Antibiotici (European Antibiotic Awareness Day), organizzata dall'European Centre for Disease Prevention and Control. Membri di governo dei vari Paesi, scienziati, associazioni di pazienti e professionisti si sono riuniti per discutere degli aspetti che riguardano l’antibiotico-resistenza e dei provvedimenti messi in atto per contrastarla. L’evento è stato trasmesso in diretta sulla Pagina Facebook dell’EAAD.

L’esistenza di un evento di tale importanza sottolinea la gravità della situazione dell’antibiotico-resistenza attualmente presente in Europa. L’Italia, purtroppo, ha conseguito il triste primato di essere il primo Paese in Europa per numero di morti legati all’antibiotico-resistenza. Nel nostro Paese, infatti, si registrano ogni anno 10 mila vittime per infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici.

La resistenza agli antibiotici o antibiotico-resistenza è un fenomeno per il quale un batterio risulta resistente all'attività di un farmaco antimicrobico.

Una delle cause principali è l’eccessivo utilizzo di antibiotici che ne provoca nel tempo l’inefficacia.

Una delle prime cause è  l’abitudine di alcuni individui di sospendere prima del termine una cura antibiotica prescritta dal medico e dal numero sempre più elevato di casi di auto-prescrizione di antibiotici senza una consultazione: per esempio per trattare infezioni virali su cui gli antibiotici non hanno effetto (in tale circostanza è evidente, peraltro, una gravissima responsabilità del farmacista che dispensa il farmaco in assenza di ricetta medica).

Un altro fattore determinante è rappresentato dall’utilizzo massivo di antibiotici negli allevamenti di animali destinati al consumo alimentare dell’uomo. I farmaci permangono nei tessuti degli animali per un tempo che varia a seconda del medicinale e sono ingeriti dai consumatori, qualora gli allevatori non rispettino i tempi di sospensione del farmaco (imposti dalla legge) prima di immettere i prodotti sul mercato.

I batteri possono avere una resistenza Naturale agli antimicrobici, come avviene nei micoplasmi, che essendo sprovvisti di parete cellulare non sono attaccati da quegli antibiotici (come le penicilline e le cefalosporine) che agiscono proprio su recettori localizzati sulle pareti cellulari.

È possibile, tuttavia, che i batteri sviluppino una resistenza Acquisita: attraverso mutazioni spontanee cromosomiche che modificano i geni che controllano la sensibilità al farmaco, oppure, più frequentemente, attraverso l’azione di frammenti di DNA (plasmidi) che passano da un cromosoma all’altro di microrganismi diversi. Questi geni che vengono diffusi tra i microrganismi codificano per la produzione di enzimi che inattivano l’antibiotico, o di proteine che espellono l’antibiotico attraverso la membrana, oppure sostituiscono il recettore per l’antibiotico con un’altra proteina bersaglio a cui l’antibiotico non si lega.

Attraverso il meccanismo della selezione naturale, quindi, vengono selezionati i batteri portatori di mutazioni che conferiscono resistenza agli antibiotici. La possibilità, inoltre, di “scambiare” frammenti di DNA da un batterio ad un altro, consente di diffondere in poche ore le capacità acquisite.

Il nostro Paese ha un’enorme responsabilità per la salute pubblica internazionale. Tutte le categorie professionali, le autorità politiche e gli stesso comuni cittadini che utilizzano farmaci sono chiamati a partecipare a questa nuova e urgente battaglia.

Le autorità competenti dovrebbero intensificare i controlli e applicare pene più severe per evitare la trasmissione delle antibiotico-resistenze dagli animali utilizzati ad uso alimentare all’uomo: a tale scopo è stata resa obbligatoria in Italia la ricetta veterinaria elettronica, in modo che sia tracciabile qualsiasi prescrizione di antibiotici agli animali.

Infine un ruolo predominante è svolto dalla ricerca: per individuare nuovi farmaci che risultino efficaci sui batteri e comprendere in maniera approfondita i meccanismi con cui essi diventino resistenti, per poterli impedire. Particolarmente interessante è la ricerca di modi alternativi di contrastare l’azione patogena dei batteri come la sperimentazione svolta da un’equipe di ricercatori della Federico II sull’impiego di fagi (quindi virus), in alternativa agli antibiotici per sconfiggere alcune infezioni batteriche del pollo, illustrata nel corso di un convegno presso l’Orto Botanico il 16 ottobre.

La sensibilizzazione di tutta la popolazione assume così un’importanza considerevole: in Francia nel 2002 una campagna del Governo dal titolo "Gli Antibiotici Non Sono Automatici" ha determinato una drastica riduzione delle prescrizioni superflue di antibiotici. Iniziative simili andrebbero diffuse in tutto il nostro territorio, ricordando che, sempre e soltanto su indicazione di un medico, «La prima regola degli antibiotici è cercare di non usarli, la seconda è cercare di non usarne troppi.» (Paul L. Marino, The ICU Book).

LE CARCERI LIBICHE

Ludovica Cavallo
4C

Ogni giorno miglia di famiglie, costrette dalle ostilità della guerra, si ritrovano a dover attraversare illegalmente il mar Mediterraneo fin sulle coste Europee in cerca di rifugio e lavoro, dove l’Unione Europea diventa sempre più ostile riguardo agli sbarchi. In seguito alla chiusura delle frontiere, messa in atto della maggior parte dei paesi Europei, i migranti, dopo giorni e giorni di viaggio in mezzo al mare su gommoni o su piccole barche, si trovano ad esser soccorsi in mare e poi tenuti in ostaggio sulle navi nei porti italiani. La causa di questo folle sequestro è direttamente collegata alla politica interna del nostro Stato. I profughi, quando non vengono soccorsi da navi europee, sono ostaggio della marina Libica che li preleva e li rispedisce nelle “carceri” libiche, veri e propri campi di concentramento costruiti sul modello dei lager hitleriani, gestiti dal Dipartimento di Contrasto all’Immigrazione Legale del Ministero degli Interni. I profughi sono circa 70 milioni, il numero più alto della storia dalla fine della seconda guerra mondiale. Quasi nessuno si preoccupa però delle condizioni precarie in cui vengono tenuti. I Medici Senza Frontiere, che hanno operato nei diversi paesi del Medio Oriente, affermano che paesi come la Libia sono invivibili.

Ormai le baraccopoli sono dominate e sovrastate da campi di concentramento e prigioni. I resoconti delle torture e degli abusi subiti dai profughi sono tra i più strazianti che si siano mai visti: i prigionieri sono denudati, spogliati di tutti i beni e sono spesso costretti alla fame e ai lavori forzati. Tutti i profughi, tra cui donne, bambini e adolescenti tra i 15 e i 16 anni, hanno raccontato il modo brutale e feroce in cui fossero stati violentati con l’elettricità e di come fossero costretti a chiamare le proprie famiglie durante le torture: questa è una delle tecniche di estorsione più diffuse nelle carceri libiche e si sottolinea il fatto che le chiamate continuavano finché la famiglia non pagava il riscatto. Nonostante i continui interventi dell’UNHCR, l’unico rimasto a Tripoli, i profughi sono in continuo aumento rispetto a quanti ne vengano evacuati e non c’è alcun limite di detenzione. L’unico modo di lasciare le prigioni è la corruzione delle guardie, le quali dopo essere state pagate vendono in via del tutto illegale i profughi come schiavi ai trafficanti. Per liberarsi della prevaricazione dei trafficanti, i profughi sono costretti a pagare un’ulteriore cifra che comprende il viaggio via mare. Nonostante le diverse testimonianze delle condizioni di precarietà di questi “lager”, Adel Shaltut, incaricato d’affari libici, non vede il motivo di tutte le critiche e delle contestazioni nei suoi confronti, in quanto le prigioni assicura siano sicure e destinate esclusivamente all’accoglienza di poveri rifugiati senza lavoro. Si è ormai giunti alla punta dell’iceberg, si pensa non ci sia un punto di ritorno.

I CAMPI DI DETENZIONE IN LIBIA

Gabriella Lettieri Sonia Visco
4C
Stella Donato
4A

Ormai è pubblico da parecchi anni il rapporto instaurato tra il governo italiano ed il trafficante Bija, tra i maggiori ricercati al mondo, che l'ONU ha definito come “uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico.” Bija, che è a capo della guardia costiera in Zawiya, si occupa del trasporto di migranti, che si stimano essere tra i 400.000 e i 700.000, situati in campi di detenzione. In base agli accordi instaurati con il trafficante, ormai il governo Europeo, in primis l'Italia, finanziano, tramite tasse imposte ai cittadini, l'andamento dei campi di detenzione in Libia.

In questi campi viene portato chi cerca di migrare verso l'Europa, che però viene respinto. Qui avvengono abusi di ogni genere e violazioni dei diritti umani; è la norma che le persone siano lasciate senza acqua, con poca aria e niente cibo, chiuse in spazi limitati, dove le donne vengono continuamente violentate sia sessualmente che fisicamente, dove inoltre non vi si può chiedere asilo politico. 

Le accuse di maltrattamento sono molte: il segretario dei diritti umani Andrew Gilmour ha testimoniato gli orrori compiuti in questi campi, affermando che spesso sono i trafficanti, i contrabbandieri, ma anche gli stessi membri dello stato libico, a permettere che ciò accada.

Amnesty International, un’organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani, studia da molto tempo gli episodi legati ai campi. Nel 2017 delle immagini dimostrano che una nave, la Ras Jadin, fornita dal governo italiano, abbia avvistato un gommone di migranti e obbligato quest’ ultimi a salire a bordo, senza l'utilizzo di scafi di salvataggio o altra attrezzatura. Questo ovviamente non è l'unico caso in cui si è verificata una situazione del genere, ma è il primo in cui la nave è europea.

Medici Senza Frontiere, lavora per fornire aiuto a chi è detenuto nei campi. Molteplici sono state le occasioni in cui MSF ha chiesto il trasferimento di alcune persone in un vero e proprio ospedale; tuttavia raramente queste richieste sono state accettate.

 C'è da ricordare inoltre che la Libia si trova in stato di guerra, e che quindi i migranti detenuti non sono per niente tutelati. Infatti nella notte del 2 luglio circa 60 perone sono rimaste uccise in un attacco aereo di un campo.

Tra i vari appelli alla giustizia, tra le denunce di violazioni e molestie, c'è da chiedersi perché il governo non aiuta? Perché non soccorre chi ha bisogno di essere accolto, perchè li respinge, mandandoli a subire quelle che sono torture, vere e proprie violazioni dei diritti umani?

Nessuno può permettersi di negare quello che effettivamente sta accadendo in Libia; è appropriato parlare di veri campi di concentramento, in cui la vita di migliaia di persone, tra cui bambini, è vista come un gioco.

Dopo anni dall'inizio di quest'orrore, il primo ottobre 2019 il PD italiano ha proposto uno svuotamento di questi campi senza l'utilizzo di componenti militari, ma con l'aiuto dell'ONU, dell'UE e dell'UA, attraverso l'adozione di corridoi umanitari e rimpatri volontari. Però con la chiusura del campo di Misurata, non sono stati riscontrati miglioramenti: infatti le persone sono state trasportate e ammassate in altri campi, ridotti ad ancor peggiori condizioni di vita.

Così si è formato il GNA cioè un governo libico che, a seguito di patti con gli Stati Uniti avvenuti nel 2015, è diventato l'unico governo con poteri esecutivi in Libia. Il supporto per il GNA è arrivato dai paesi riuniti nel gruppo informale di supporto alla Libia, di cui fanno parte una ventina di stati, tra cui la Russia, che ambisce a guidare un eventuale missione in Libia.

Detto ciò ritengo che le decisioni effettuate dai governi siano state pressappoco inutili, in quanto sono servite solamente a dare un'apparenza di miglioramento e di progresso di fronte all'opinione pubblica.

IL CILE

Alessandra Sergio
2C

Le agitazioni in Cile sono ufficialmente scoppiate il 4 ottobre, in seguito all’annuncio dell’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana, il quale sarebbe passato dai soliti 800 a 830 pesos (da circa 90 centesimi a poco più di un euro). La risposta del Ministro dell’economia al malcontento generale è stata: “chi prima arriva, meglio alloggia”, riferendosi al fatto che l’aumento del prezzo valesse solo per gli orari di punta. La metropolitana di Santiago dispone di sei linee attive e tre in costruzione per un totale di 140 km di estensione, rendendola il terzo sistema di trasporto più utilizzato nell’America Latina; solo nel 2018 è stata utilizzata da 2 milioni di persone. Le statistiche dimostrano che un cittadino medio utilizza i trasporti pubblici circa cinquanta volte al mese (andata e ritorno dal lavoro, altri motivi), spendendo così il 13% del proprio stipendio.

Tra il prezzo insostenibile e le ciniche dichiarazioni dei ministri la goccia è traboccata dal vaso e iniziano così le evasiones: molti studenti della capitale saltavano sui tornelli gridando “non pagare, un altro modo di lottare!”. Questo è stato solo l’inizio. Il 15 ottobre dieci studenti del prestigioso liceo Instituto Nacional sono entrati nell’ufficio del rettore e lo hanno messo a fuoco, hanno girato la scena e postata su Youtube. Altri studenti della stessa scuola hanno creato un profilo Instagram, rendendo il movimento sempre più ampio. La risposta del governo è stata immediata e ha piazzato carabineros in tutte le stazioni della metropolitana, dando il via a una durissima repressione.

L’aumento del prezzo del biglietto è però solo la punta dell’iceberg: questo è stato un pretesto per esprimere un malessere generale dovuto all’elevato costo dell’istruzione, la crisi del sistema pensionistico, salari bassi, disoccupazione, polizia corrotta, un enorme divario tra ricchi e poveri (un appartenente alla cosiddetta elite guadagna 33 volte più di un cileno medio) e la privatizzazione dell’acqua. La rivolta comunque non si appoggia a nessuna opposizione, non esiste un partito che effettivamente rappresenta il malcontento della popolazione.

 

Con l’intensificarsi della rivolta, il 17 ottobre le autorità hanno chiuso le stazioni della metropolitana. Il 18 ottobre migliaia di persone hanno camminato per le vie maggiori della città, in un primo momento non si è trattato di una protesta (ricordiamo che le linee della metro erano chiuse). L’atmosfera si è accesa col calare della notte, però. Venti stazioni della metropolitana bruciate, sedici autobus ribaltati e il palazzo dell’Enel messo a fuoco.

Altri manifestanti più pacifici si sono limitati a sbattere delle pentole. A mezzanotte il presidente (centrodestra) Sebastián Piñera ha dichiarato lo stato di emergenza affidando alle milizie l’ordine pubblico. Il 19 ottobre le proteste sono continuate e alle dieci di sera è scattato il coprifuoco. D’impatto è l’episodio di lunedì 4 novembre: un giovane manifestante ferito alla testa si rivolge a braccia aperte ai poliziotti dicendo “Sparatemi per favore”.

Era dai tempi di Pinochet che non si vedevano contromisure simili. Durante il suo regime era comune l’uso della violenza fisica sui cittadini come azione di governo e oggi lo Stato ammette che furono più di 40.000 i torturati o uccisi. Fu proprio Pinochet a introdurre in Cile un sistema economico di stampo liberista, finendo così per privatizzare numerose aziende e ridimensionando il ruolo dello Stato. In questo venne appoggiato dall’oligarchia finanziaria, dalle classi medie e dalle multinazionali.

Le rivolte in Cile, esattamente come quelle del resto del mondo, sono il risultato di un modello economico oramai inefficace, per l’appunto il liberismo. Esso quasi necessita di un divario incolmabile tra ricchi e poveri, poiché i governi pesano molto sui lavoratori per evitare una recessione economica. Questo comporta nella pratica un paese che non coinvolge tutti i suoi abitanti e la stragrande maggioranza della popolazione non si sente rappresentata. Il Cile non risolverà la questione reprimendo le manifestazioni (d’altronde con la violenza e perciò fallendo), perché non farà altro che procrastinare il problema, bensì attuando un lungo e tortuoso percorso che modifichi l’intero assetto economico.

RISIKO NELLA REALTÀ

Francesca Carbonara
2A

articolo e ilustrazione di

Dopo il ritiro di circa 2000 soldati americani, il giorno 9 ottobre 2019 le truppe turche hanno invaso il territorio siriano del Rojava dando inizio all’operazione “Primavera di pace”. Quest’ultima prevede, secondo Erdogan (primo ministro Turco), l’occupazione militare della zona di confine tra Turchia e Siria, oggi amministrata dai curdi, per creare un’area “cuscinetto” (profonda 30 km e lunga 480 km circa fino all’Iraq).

Quest’area servirà ad ospitare fino a 3 milioni di profughi siriani precedentemente sfollati in Turchia. Per questi, Erdogan ha già presentato all’ONU un progetto che comprende villaggi, scuole, moschee e ospedali per un importo di 27 miliardi di dollari, ma che attuerà un’impressionante sostituzione demografica, a scapito dei curdi del Rojava.

Da sempre il territorio del Kurdistan ha avuto un’importanza geopolitica e notevoli risorse naturali (petrolifere ed idriche) ospitando popoli di diverse etnie che vivevano in pace fra loro.

Dopo il crollo dell’impero ottomano, la Società delle Nazioni promise ai curdi la costituzione di uno Stato indipendente (trattato di Sevres 1920). Ma con il trattato di Losanna (1923), il territorio del Kurdistan, secondo il progetto franco-britannico, venne smembrato ‘a tavolino’ tra Iraq, Iran, Turchia e Siria. Nonostante ciò, i curdi hanno sempre mantenuto un’identità ancestrale che preoccupava gli stati ospitanti. Perciò nel corso del tempo i curdi hanno subito uccisioni di massa (come il genocidio dell’Anfal dallo stato dell’Iraq che vide più di 182.000 vittime), deportazioni, discriminazioni e divieti di ogni genere (divieto dell’uso della lingua curda in Turchia), per evitare la costituzione di uno Stato indipendente. Inoltre, questi Stati imposero dei progetti di nazionalizzazione per assimilare i diversi gruppi etnici e religiosi presenti nell’antico Kurdistan, fino alla negazione della loro stessa esistenza.

Per questo motivo, i curdi hanno scelto di scendere in campo, dopo decenni di attivismo e lotta politica, per conquistare l’autonomia etnico-politica. Fu così che nacque il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Dopo ben quattro insurrezioni armate, il partito democratico del Kurdistan PDK (riconosciuto in Iraq), riuscì ad ottenere una regione autonoma nell’Iraq settentrionale (1992), nota come “Governo regionale del Kurdistan”. In Turchia invece, i curdi, che sono circa 20 milioni, non hanno mai ottenuto l’autonomia, anzi il PKK fu proclamato un’associazione terroristica e fu addirittura vietata l’uso della lingua e dei cognomi curdi. La stessa parola “curdo” fu bandita, tanto che i politici turchi chiamarono questo popolo con l’espressione “turchi delle montagne” (in quanto il Kurdistan è un territorio situato su un altopiano).

Durante la guerra civile siriana (2011), i curdi-siriani si dimostrarono indispensabili per la lotta all’ISIS, catturando circa 12.000 miliziani, e ricevendo un cospicuo appoggio militare dagli Stati Uniti. Dopo la guerra conquistarono una fascia di territorio nel nord della Siria, al confine con la Turchia. Dal 2013 questa regione, chiamata Rojava, ottenne un’amministrazione autonoma e fu governata dal PKK e dalle Unità di protezione del popolo YPG (costituito al 40% da donne). Ed è proprio questo il territorio “caldo” teatro di sanguinose battaglie in cui si vedono violati i diritti civili.

Dopo la quasi totale sconfitta dell’autoproclamato Stato Islamico e dell’ISIS, gli Stati Uniti, che avevano combattuto al fianco del PKK e YPG nel Rojava, hanno “terminato” il ruolo di aiuti umanitari. In effetti la strategia politica del presidente Trump, che segue fedelmente il programma di Obama, prevede di ritirare gradualmente le truppe da quel territorio per vari motivi: le conseguenze negative sul prestigio americano; la diminuita importanza delle risorse energetiche e petrolifere; evitare la ‘sovra-estensione imperiale’ che grava sul bilancio americano, spingendo gli altri alleati a responsabilizzarsi sui problemi della regione.

img20191112_19453397(1)_page-0001.jpg

Inoltre l’intesa tra la Russia e la Turchia ha fatto sì che quest’ultima si ‘allontanasse dagli Stati Uniti’ e per questo motivo il ritiro delle truppe americane in Rojava, potrebbe essere stato sfruttato per un’ “esca” in modo da delegittimare l’immagine della Turchia. Analogamente Trump intende minare le fragili basi della nuova intesa Turchia-Iran-Russia le quali hanno il comune obiettivo di controllare l’area del Kurdistan siriano, ognuna per le sue ragioni: la Russia cerca uno Stato-vassallo per garantirsi l’accesso ai mari caldi; l’Iran vuole una base in Siria da usare come base logistica nel cuore del Medio Oriente per colpire i suoi nemici; la Turchia, infine, che teme le organizzazioni armate curde, vuole un territorio libero dalle YPG per attuare il suo progetto di re-insediare i profughi, così da limitare la possibilità di una costituzione di uno Stato curdo. Dal canto suo l’Unione Europea, come del resto nel caso della guerra in Siria, non è stata in grado di prendere decisioni politiche forti e di attivarsi al riguardo.

L’assenza degli americani, ha fatto sì che l’esercito turco bombardasse il Rojava, colpendo anche le carceri curde dove si trovavano molti dei militanti dell’ISIS, permettendo a più di 2200 detenuti di scappare. L’operazione si è conclusa con l’avanzata via terra delle forze turche, appoggiate dalle milizie jihadiste e con il controllo armato del Rojava. È così che si svolge la suddetta “Primavera di Pace”, come previde lo stesso Tacito: “ubi solitudiem faciunt, pacem appellant” (laddove fanno il deserto, lo chiamano pace).

 

​

 

bottom of page