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2020-2021: i nostri articoli

CASO GRILLO

Elena Foccillo

VB 

Flavio Centofanti

IB 

“Allora perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c’è stato niente, perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kite surf e dopo otto giorni fa la denuncia vi è sembrato strano. È strano”. Con queste parole Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, cerca di difendere suo figlio, il diciannovenne Ciro Grillo. Quest’ultimo verso le cinque del mattino del 17 luglio 2019, dopo una serata al locale Billionaire di Porto Cervo, torna alla villa del padre lì vicino insieme a tre amici e a due ragazze conosciute al locale. In quella stessa casa sarebbe poi avvenuto il presunto stupro di una delle due ragazze, mentre l’altra dormiva. I ragazzi sostengono di essere innocenti in quanto la vittima fosse consenziente. La decisione spetterà alla magistratura. 

Dopo otto giorni la ragazza denuncia l’accaduto, e da quel momento iniziano le indagini: vengono copiati i contenuti dei telefoni dei cinque ragazzi, vengono interrogati i vicini e la madre di Ciro, Parvin Tadjk, che dormiva nell’appartamento vicino, la quale afferma di non aver sentito nulla. 

Alcuni ritengono Grillo “un padre che vuole giustizia”, altri lo criticano, riconoscendo la gravità delle sue parole. Qualsiasi genitore crederebbe all’innocenza del proprio figlio, ma a tutto c’è un limite, e Grillo quel limite l’ha superato: afferma che denunciare una violenza dopo 8 giorni sia strano; che sia strano andare in kite surf dopo aver vissuto un episodio del genere. Forse Grillo non sa che spesso le vittime di abuso non riescono a denunciare subito l’accaduto, o non ci riusciranno mai. Quindi perché le parole di Grillo sono gravi? Perché il processo ancora non c’è stato. Ciò che ha fatto di sbagliato è stato usare la sua popolarità mediatica per diffondere un messaggio sbagliato e irrispettoso verso la ragazza e i suoi cari, perché se è vero che senza processo Grillo ha tutta la libertà di credere a suo figlio, la stessa cosa vale per la ragazza e anche verso tutte le vittime di abuso che, ricordiamolo, in Italia hanno 12 mesi a disposizione per denunciare, e se questi sono pochi, figuriamoci 8 giorni.

È proprio questa mentalità che frena molte persone dal denunciare, perché rischiano che il loro trauma sia ritenuto un’invenzione opportunistica in quanto rivelato “tardi”, anche se una “data di scadenza” non dovrebbe esserci. 

Da questa vicenda si può imparare molto: denunciare lo stupro è fondamentale, che siano 8 giorni, 8 settimane, o 8 mesi dopo, perché, per quanto la denuncia non potrà sanare la ferita che un evento del genere ha causato, il colpevole sarà punito per il reato commesso. In Italia il numero delle denunce di stupro è venti volte inferiore rispetto alle denunce in paesi con quasi lo stesso numero di abitanti, come il Regno Unito. Ciò è incredibile in quanto in Italia non ci sono così pochi casi di stupro, il problema quindi sta nelle denunce, perché, mentre in alcuni paesi i casi di stupro (purtroppo non tutti) vengono denunciati, in Italia le denunce spesso non vengono fatte. Probabilmente avviene questo perché le vittime non trovano il coraggio di denunciare, probabilmente perché in Italia fino al 1981 erano in vigore il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, e fino al 1996 lo stupro era un reato contro la morale, non contro la persona, oggi qualcun altro non vuole sentirsi dire “Eh però potevi vestirti meno scoperta”, “Eh però potevi anche non camminare da sola per strada”, “Eh però se denunci otto giorni dopo come può mai essere vero? “, non mancano frasi come “Ma sei un uomo, come fai a farti violentare da una donna”, “Una donna fa sesso con te e ti lamenti pure?”; “Eh ma te la sei cercata”, “Non sapevi difenderti da un altro uomo?”. Non sappiamo ancora se Ciro Grillo sia colpevole, perché ovviamente può anche succedere che si denunci uno stupro mai avvenuto, ma, se Grillo stesso, che sotto al suo video scrive “Giornalisti o giudici?”, pensa che non sia giusto ergersi a giudice prima del processo, perché lui può farlo? 

LA SPAGNA NELLE CANZONI DI PABLO HASÉL 

tra musica e libertà di espressione

Federico Cipolla

IIB

Marcello Gemma

IIC

Giulia Pallonetto

IIA

Durante la sera del 17 febbraio 2021, ci sono state alcune manifestazioni, poi esplose in violenza, in diverse città della Spagna con cariche da parte della polizia spagnola. La motivazione di queste proteste risale al giorno prima, il 16 febbraio, quando il rapper trentatreenne Pablo Hasél viene arrestato nell’Università di Lleida dopo essersi barricato due giorni prima nel rettorato con 50 studenti. Viene poi condannato a nove mesi di carcere per oltraggio alla Corona e apologia del terrorismo, a causa dei testi di alcune canzoni in cui inveiva contro la Monarchia spagnola; a questi mesi, inoltre, vanno aggiunti un anno e quattro mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Le proteste poi sono sfociate in altri temi: dalla libertà di pensiero ed espressione alla richiesta di indipendenza catalana, passando per la proposta di rinnovare la polizia. 

Ora l’unico modo che Hasél ha per uscire dal carcere è di pagare una somma di 30000€, opzione già rifiutata dal rapper. Ma il cantante, in questa sua lotta, ha il sostegno di molti: ad inizio febbraio oltre 200 artisti spagnoli avevano scritto una lettera aperta per chiedere di non incarcerare il rapper, non essendo la prima volta che ciò avveniva. Hasél, infatti, era già stato punito per le sue canzoni, ad esempio nell'ottobre del 2011, quando venne arrestato e rilasciato su cauzione per una canzone intitolata “Democracia su Puta Madre”. Si aggiungono, dunque, altri arresti e multe in seguito ad aggressioni e resistenza alla polizia. 

La condanna e l’arresto di Hasél sono stati molto discussi e hanno riaperto un grande dibattito sulla libertà di parola ed espressione in Spagna. Secondo i critici, le pene contro chi commette i cosiddetti “reati d’opinione” sono troppo severe e, inoltre, lo stesso governo spagnolo non si mostra disposto ad ammorbidirle, come aveva invece promesso già nel 2018. A questo punto, a poco più di un mese dal suo arresto, anche noi dell’Urlo vorremmo fare la nostra analisi della vicenda e ricavarne delle conclusioni quanto più corrette possibili.

Non è certo un segreto che la situazione politica spagnola sia da anni piuttosto tesa: possiamo ricordare, infatti, il tentativo di referendum mandato avanti dai Catalani nel 2017, il quale fu violentemente osteggiato dalla polizia e costrinse addirittura alla fuga l'allora governatore della Catalogna, Puigdemont. Ma la spaccatura all'interno dello stato ha delle radici ben più profonde di quanto si possa immaginare e, per capire quanto questa crepa sia larga, bisogna dare uno sguardo alla Spagna degli anni 40', ancora comandata dalla dittatura fascista di Francisco Franco, che nel corso degli anni vietò e rese illegali vari aspetti della cultura catalana e basca, eliminando, ad esempio, l'utilizzo della lingua basca e, ovviamente, reprimendo con violenza ogni insubordinazione.

Sarà proprio questa umiliazione impartita al popolo basco da parte di Franco in combutta con la corona ad ispirare i giovani militanti, che creeranno un movimento studentesco clandestino indipendentista di matrice ML, chiamato “Euskadi Ta Askatasuna”, letteralmente “Paese basco e libertà”. Quest’ultimo, attivo fino al 2011, nell’arco di 60 anni fu responsabile di svariati attentati, tra i quali il più importante fu sicuramente quello che causò la morte di Luis Carrero Blanco, successore di Franco. L'esempio dei Paesi baschi, quindi, è essenziale per capire quanto la Spagna sia un paese culturalmente diverso nelle varie regioni, proprio come l'Italia, e quanto la monarchia fallisca nel suo unico compito, dimostrandone l'anacronisticità: questa, infatti, reprime continuamente le critiche alla gestione del paese e alla corona stessa attraverso accuse di terrorismo infondate (come nel caso di Hasél).

Ma cosa rappresenta realmente Hasél? E perché la sua musica è così importante? Pablo Hasél e il suo rap sono da sempre il simbolo della lotta contro una società che non comprende e non accetta. Per le ramblas spagnole egli diffonde la musica degli oppressi e dei sognatori, di coloro che tra le rime di qualche canzone esprimono la voglia di riscatto e sperano in un mondo migliore. Pablo Hasél e il suo rap sono denuncia, denuncia sociale. Sono voce, voce del dissenso di un popolo stanco di finte promesse e violenza. Sono libertà d'espressione.

Si può quindi porre un vincolo alla libertà d'espressione? E fino a che punto, poi,  si può parlare di libertà d'espressione? Ma soprattutto, può questa, espressa sotto forma di una canzone qualsiasi, essere considerata un atto terroristico? Mandare in carcere chi fa musica per i propri testi dimostra quanto in Spagna sia diventato ristretto il perimetro di ciò che è considerato accettabile e quanto sia semplice, invece, limitare le libertà di un artista. Nessuno dovrebbe andare in carcere per delitti di opinione. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a procedimento penale per essersi espresso e aver dato libero sfogo alle proprie idee sui social media o nelle canzoni. La libertà di espressione va sempre protetta e tutelata, nei limiti della tolleranza e del rispetto di ogni essere umano: ognuno è e deve sempre essere libero di esprimersi senza ledere o attaccare le libertà degli altri.

L'arresto di Pablo Hasél è, dunque, una restrizione eccessiva e sproporzionata alla sua libertà di espressione e come afferma egli stesso “Non serve concordare con ciò che canto per riconoscere la madornale violazione della mia libertà d’espressione”.

TRÀ LIBERTÀ SOSPESE, INTERESSI COMUNI E SOLIDARIETÀ

Sveva Russo

ID

È indubbio che l’emergenza sanitaria in cui ci troviamo da mesi abbia colto tutti, cittadini e istituzioni, medici e politici, ugualmente disarmati, lasciando il mondo ad occhi sgranati, ancora oggi incredulo di fronte a uno scenario tanto insospettato. 

In una situazione del tutto inedita, in cui si attesta un vuoto normativo e comportamentale, ognuno si è barcamenato come meglio credeva, nella vita privata come in quella comunitaria, tentando di riprenderne a poco a poco le redini. 

Anche le istituzioni, dal canto loro, prive di linee guida e situazioni pregresse cui fare appello, hanno traghettato in acque più placide un vascello con lo scafo bucato, e non senza errori. 

Tuttavia, è legittimo valutare la costituzionalità dei provvedimenti restrittivi adottati e, soprattutto, chiedersi se, stante l’emergenza sanitaria, sia da ritenere lecita, o comunque sopportabile, una sospensione dei diritti costituzionalmente garantiti (quali la libertà di circolazione, il diritto allo studio o la libertà di associazione). 

Si è sovente affermato che il diritto alla salute sia il primo assoluto diritto della persona e che ogni altro diritto, compresa la libertà personale, debba semplicemente cedere il passo, senza alcun contemperamento tra un diritto e l’altro. 

Probabilmente, di fronte alla gravità della situazione che stiamo vivendo, in molti si direbbero d’accordo con un’affermazione simile. 

Tuttavia, è necessario sottolineare che un’idea del genere non emerge dalla Costituzione la quale, invero, non stabilisce una scala di valori tra libertà e salute. 

Ciò avviene nei sistemi dittatoriali e, di conseguenza, non può avvenire nel nostro. 

Un altro punto su cui, in questa situazione, ci si è dimostrati poco inclini alla discussione è il ruolo della scienza e delle istituzioni, ma soprattutto la natura del rapporto che ne coniuga le funzioni. 

In circostanze simili, sovente la politica sembra aver fatto un passo indietro, delegando le decisioni alla scienza e abdicando in favore di quest’ultima. 

Tuttavia, è lecito sottolineare che non solo anche tra gli scienziati aleggiano opinioni diverse, ma soprattutto che, sebbene questi debbano certamente dare il proprio contributo, il potere decisionale spetta di diritto ai leader politici e agli organi a ciò preposti. 

Le istituzioni non hanno il compito di mettere meramente in atto quanto affermato da medici, virologi o epidemiologi ma, al contrario, dopo un’attenta audizione degli esperti nel settore, devono avere la capacità di equilibrare le esigenze della scienza con quelle dell’intero sistema, poiché vi sono altri diritti e altre libertà che non spetta ai medici tutelare. 

Sono, dunque, i provvedimenti presi negli ultimi mesi, conformi alla Costituzione? 

La risposta, semplice e disarmante, è che la nostra Costituzione, pilastro su cui si erge l’intero ordinamento giuridico italiano, nulla regola al riguardo. 

Essa contempla, infatti, unicamente lo “Stato di guerra” (art.78), ma non lo “Stato di emergenza”: tale vuoto normativo lascia il paese in balia dell’esecutivo, organo non preposto a tal scopo. Pertanto, l’emanazione di provvedimenti da parte del Governo è di dubbia costituzionalità. 

Ciò, chiaramente, non significa che le procedure adottate non siano giustificate dall’emergenza sanitaria, ma significa che tale emergenza non deve indurci a giudicare queste limitazioni come costituzionalmente legittime. 

Sebbene le misure restrittive siano necessarie, la rinuncia a diritti teoricamente irrinunciabili non può passare inosservata e, soprattutto, deve restare un unicum, un caso isolato nella storia del nostro paese. 

A tal scopo sarebbe auspicabile, terminata questa drammatica esperienza, un intervento costituzionale volto a regolare lo stato di emergenza. 

E i cittadini invece? Qual è il loro ruolo in questa terribile situazione? 

È indubbio che il buon cittadino, quello dotato di capacità di autoanalisi e senso civico, agisce non solo in virtù delle regole, ma anche in nome di uno spirito di responsabilità. 

Il buon cittadino non agisce rettamente solo perché terrorizzato dalla sanzione, al contrario è in grado, anche laddove la legge non arriva, di discernere cosa è giusto da cosa non è giusto fare, per sé stessi e per gli altri. 

Oggi rispettare le regole non significa solo salvaguardare la propria salute, ma anche quella di chiunque altro. 

Indossare la mascherina, rimanere in casa ed evitare luoghi affollati non significa solo tenere al sicuro se stessi, ma anche chi è più debole, chi è più piccolo, chi ha meno possibilità. 

In questa drammatica situazione le conseguenze innescate dall’azione del singolo coinvolgono tutti: ognuno è responsabile per sé stesso e per gli altri.  Ora più che mai ci siamo trovati soli, tappati nelle nostre case, terrorizzati da un nemico invisibile che fomenta la paura, che induce a guardare al prossimo con diffidenza, che ci spinge a camminare furtivi, ciascuno sul proprio marciapiede; un nemico che ci impedisce anche di toccarci, di accarezzarci, di scambiarci un bacio o stringerci in un abbraccio; un nemico che ha reciso il contatto sociale, che ha eretto muri e costruito barricate. Se è vero che il virus ci ha isolato, è proprio il virus che ci impone di rimanere uniti, di collaborare, di proteggere noi stessi e chi ci circonda, con un occhio di riguardo per chi è più debole e non sa difendersi da sé. 

È questo un momento cruciale nella nostra storia, in cui tutti i cittadini sono chiamati a collaborare in egual misura, schierati in una testuggine compatta, ciascuno parimenti impegnato a combattere un fronte comune. 

In principio, nel marzo scorso, quando la parola “coronavirus” aveva appena iniziato a farsi strada nelle nostre case e nelle nostre vite, le autorità erano disorientate, la scienza sembrava non avere risposte e noi eravamo confusi, esterrefatti di fronte a uno scenario mai prefigurato in passato. Nessuno sapeva, nessuno aveva già sperimentato. 

Adesso, a pandemia iniziata da più di un anno, i medici si sono fatti strada a grandi passi nell’impervia via che è la scienza, ci hanno portato a conoscere la natura del virus, ci hanno insegnato a contenerlo e ci condurranno, ne siamo certi, alla sua sconfitta. Le istituzioni hanno imparato, con qualche passo falso, a gestire alla meglio i provvedimenti. 

Tutti noi, anche se stanchi e spossati, abbiamo imparato a convivere, chi con speranza chi con rassegnazione, con questa terribile realtà. 

Se adesso se ne intravede la fine, è stato merito della scienza che ha fatto un lavoro straordinario, producendo un vaccino in soli dieci mesi; è stato merito delle istituzioni che, senza indicazioni né direttive rispetto ad un evento senza precedenti, se la sono cavata umanamente, inciampando e recuperando; è stato merito dei sacrifici di tutti noi che, costretti per mesi entro i muri delle nostre case, abbiamo tenuto duro. È stata la fatica di ognuno, ma anche la fatica di tutti. E oggi, che siamo a un passo dalla vittoria, non deve venir meno questa compattezza. 

Adesso non può ogni paese tentare di accaparrarsi la propria dose di salvezza lasciando gli altri in mare, in balia della tempesta. Dinanzi al virus siamo tutti uguali e abbiamo tutti parimenti diritto a sfuggirne. 

Oggi chi è stato tanto celere, tanto pronto da trovare la soluzione, da correre dritto fino allo sbocco nel tunnel, ha l’obbligo etico e morale di trainare fuori anche gli altri. Chi galoppa ha il compito di trascinare fuori anche chi è più lento, chi zoppica e chi striscia. 

Ognuno guardi dritto davanti a sé, ma tenga sempre una mano tesa dietro le proprie spalle: solo così potremo presto dire di avercela fatta. 

LA DIGNITÀ DI SULPICIA: PER UNA EGUALITÀ LETTERARIA E NON SOLO

Nicolò Popolo

IIIC

Sei in seconda liceo (quarto anno per gli anticlassicisti), ora di latino, entri in classe e si sta trattando degli elegiaci, in particolare la lezione verte su Tibullo, un poeta nato nel 50/55 a.C. vicino Roma e morto giovane nel 19 a.C., facente parte del circolo di Marco Valerio Messalla Corvino, la cui produzione si colloca tra il 30 e il 20 a.C. Della sua opera è giunto un Corpus di elegie diviso in tre libri, i primi due sicuramente tibulliani, il terzo spurio e suddiviso in quattro sezioni: III 1-6 elegie il cui autore è un certo Lygdamus, III 7 il Panegyricus Messallae di autore ignoto, III 8-12 di Tibullo su Sulpicia, III 13-18 di Sulpicia, III 19-20 di Tibullo.                 Sono finite le lezioni, sei a casa ed hai voglia di leggere qualcosa di leggero ma emozionante, quindi prendi della mensola, tra Jane Austen e Mary Shally, uno degli Harry Potter e prima di aprirlo rileggi scritto a chiare lettere in copertina il nome dell'autrice, J.K. Rowling. Ci sei quasi, stai per gettarti sul divano ma, passando in corridoio, ti salta all’occhio la stampa del dipinto tanto cara alla nonna, “Santa Cecilia”, del 1620 circa della pittrice Artemisia Gentileschi. E ora, dopo tutto ciò, puoi finalmente entrare ad Hogwarts.        Forse non ti accorgi che poter leggere di sfuggita su libri, quadri, saggi e tanto altro i nomi di autrici, pittrici, musiciste e intellettuali è una conquista che ha previsto e prevede secoli (e non è un’iperbole) di lotte ad una società che ritiene le donne incapaci di pensare ed esprimere la propria arte alla stregua degli uomini, dinamica purtroppo ben nota. Oggi la dignità di molte è stata riscattata, ma dietro il nome di quanti autori si cela la penna di una donna? Quante artiste anche in tempi non lontani si sono celate dietro ad acronimi o continuano a dover chiedere il permesso degli uomini che stanno loro attorno? Prendiamo ad esempio la Sulpicia di cui sopra, solo da non molto tempo è divenuta una donna, pensa che per tutto il medioevo e oltre, come secondo Scaligero, 1577, era solo un esercizio letterario di Tibullo che prende la voce di Sulpicia, nel 1624 von Barth la identifica con una poetessa di età domizianea, nel 1755 Heyne la smembra riconducendola alla mano di più autori del circolo di Messalla, nel 1838 invece Gruppe identifica nei componimenti III,14-18 una sorta di latino femminile e solo per questo sarebbero effettivamente opera della figlia di Servio Sulpicio Rufo, ma bisognerà attendere Parker nel 1994 che sosterrà che non vi è ragione per negare la maternità di Sulpicia almeno delle elegie III,9 e III,11 -si invoca sullo scrivente la clemenza del lettore qualora vi fossero eccessive lacune filologiche, dilungarsi su tali aspetti avrebbe mutato questo scritto in uno sfoggio di erudizione non in linea con le finalità del suddetto articolo-.

Scarno risultato potresti pensare, ma almeno si delinea la forte ipotesi che Sulpicia sia esistita, dando così dignità a una delle pochissime, se non l’unica, voce femminile della latinità pre-cristiana di cui si è a conoscenza.

Nei secoli successivi, per tentare di emergere da quel flusso di oblio maschilista che ha provato a fagocitare anche la nostra Sulpicia, molte autrici hanno adottato due escamotage principalmente: chiedere scusa ed ammettere una presunta superiorità maschile o adottare nomi di uomini. Anne Bradstreet (1612-1672), autrice del primo testo poetico della letteratura americana, si troverà infatti a dover giustificare il suo lavoro nel prologo della sua opera The Tenth Muse (1650), ricordando che gli uomini erano migliori e superiori e chiedendo il permesso di pubblicare la sua raccolta. Oppure le tre poetesse, scrittrici e sorelle Charlotte, Emily e Anne Brontë durante la prima metà del XIX sec. assumeranno i nomi di Currer, Ellis e Acton Bell per pubblicare le loro opere e nonostante il grande successo di Cime tempestose, di Emily, e Jane Eyre, di Charlotte, dopo aver svelato la loro identità al proprio editore, fu comunque loro consigliato di mantenere i nomi altri per continuare a vendere. Analogamente accadeva con gli acronimi che rendevano più appetibili ad un mercato abbastanza misogino brillanti scritti tutti al femminile. Alle volte addirittura la fittizia paternità diventava l’unica parentela dell’opera, cancellando definitivamente l’anteriore maternità. Basta che pensi alle tele di C. Daly che hanno atteso duecento anni per scoprire che non avevano come papà un Charles Daly, perché questo si volle desumere dalle iniziali sui documenti di compravendita dei quadri, ma che erano stati partoriti dal sapientissimo pennello Caroline Louisa Daly, paesaggista canadese vissuta tra la prima e la seconda metà dell’ottocento. Ti sarà lecito pensare che tutto ciò appartenga a tempi ormai lontani, che non accadano più queste dinamiche e invece ti invito a riportare lo sguardo sul libro che hai fra le mani e alla sua autrice: ebbene anche la mente che ha ideato uno dei maghi più famosi al mondo, all’uscita del primo volume della saga nel 1997, ha dovuto seguire le direttive del proprio editore che le proponeva un più unisex -ma in realtà maschile- J.K. rispetto ad un decisamente femminile Joanne Rowling poiché temeva che un libro scritto da una donna non avesse un’adeguata attrattiva sul pubblico del sesso opposto. Come puoi ben vedere la questione, seppur abbia antiche origini, è più che mai attuale e tocca anche noi che credevamo averla superata. Ora spetta a te scegliere cosa fare, se perseguire una consolidata tradizione discriminatoria o alimentare la scintilla dell’egualità, contribuendo a creare una realtà più inclusiva e rispettosa delle persone che la popolano. Ma sappi anche che basta poco: prova a chiudere gli occhi, dimenticando chi hai di fronte e ascolta solo la sua voce e cosa ha da dire. Prova e vedrai il cambiamento.

PROGRAMMA ARTEMIS

Tra il 1968 e il 1972 la NASA ha dato il via a nove missioni spaziali con umani, tra le quali solo sei hanno avuto successo, permettendo a dodici astronauti di sbarcare sul territorio lunare. Il programma Artemis è il programma della NASA che, con la collaborazione di altre associazioni internazionali, prevede di mandare il prossimo uomo e la prima donna sulla Luna entro il 2024. Ma prima di parlare del futuro dell'esplorazione spaziale è necessario ricapitolare ciò che è successo fino ad oggi, partendo dal 4 ottobre 1957; durante la guerra fredda, l'Unione Sovietica lancia il primo satellite artificiale nello spazio: Sputnik 1, dando il via alla corsa allo spazio. Dopo vari traguardi da entrambi i fronti, il 20 luglio 1969 l'America, con la missione Apollo XI, lancia nello spazio i primi esseri umani ad andare sulla Luna: Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins (che però resta nella navicella senza scendere sulla superficie lunare). Le missioni Apollo sono finite nel 1972 per mancanza di fondi da parte dello stato. 

Un altro programma spaziale fondamentale è stato il programma Shuttle, con 135 missioni dal 1981 al 2011. Molto importante è stato anche l'accordo firmato da 15 paesi a Washington, nel gennaio del 1998 per la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale, che orbita tuttora attorno alla Terra. Nel 2019 nasce il programma Artemis che prevede la collaborazione della NASA con altre agenzie spaziali di tutto il mondo come l'ESA (European Space Agency), la JAXA(Japan Aerospace Exploration Agency) e anche l'ASI (Agenzia Spaziale Italiana), nonché con altri paesi come Canada o Australia. Perché ritornare sulla luna? Ci sarà la costruzione di una vera e propria base lunare che permetterà la permanenza sul nostro satellite, verrà studiato più dettagliatamente il suolo lunare, verranno posti radiotelescopi sul lato oscuro della luna per captare le onde radio di corpi celesti molto lontani, senza interferenze da parte delle onde terrestri e la collaborazione di molti paesi, che addirittura potranno arrivare insieme fino a Marte. 

 Diversamente da come accadde con le missioni Apollo, con Artemis la NASA e le altre agenzie manderanno una stazione che orbiterà attorno alla luna: il Gateway, che sarà lanciato nel 2023, e servirà per il contatto tra gli astronauti con la terra per fare esperimenti attorno all'orbita lunare e per facilitare la discesa sulla superficie, che avverrà con un lander apposito, scelto tra tre proposte di varie aziende private: Blue Origin, Dynetics e SpaceX. La navicella in cui si troveranno gli astronauti si chiama Orion; questa si staccherà dal resto del razzo per arrivare fino al gateway e servirà poi per ritornare sulla terra, e per riuscire a sopportare il rientro in atmosfera con il suo scudo termico.

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All'interno ci sono sistemi di guida innovativi, come l'attracco automatico e la navigazione assistita da un'intelligenza artificiale. Verrà lanciata con il razzo Space Launch System, il successore del Saturn V (utilizzato per le missioni Apollo), costruito con tecnologie e vari componenti dello Shuttle. Il razzo partirà dal Kennedy Space Center in Florida; una volta fuori dall'atmosfera terrestre la navicella Orion si staccherà dal razzo e, dopo aver orbitato attorno alla Terra, arriverà fino al Gateway (sebbene non sia sicuro se nella prima missione con umani si utilizzerà effettivamente il Gateway, o si inizierà ad usarlo dalla seconda) a seguito di un viaggio di 4/5 giorni. Dopo vari test che continueranno anche nei prossimi mesi, nel novembre 2021 partirà la prima missione: Artemis I , ancora senza umani, che arriverà in orbita lunare dove rimarrà per un paio di settimane, per poi tornare indietro. Dopo altre missioni che porteranno sulla Luna rover, strumenti e varie risorse, nel 2023 verrà lanciato il Gateway, e ci sarà Artemis II, che porterà gli esseri umani attorno all'orbita lunare. Se nessun test sarà fallimentare nel 2024 con Artemis III i primi astronauti dal 1972 metteranno piede sulla superficie lunare. Come abbiamo visto, in questo programma anche l'agenzia spaziale italiana sarà uno dei partner della NASA, grazie agli accordi Artemis dello scorso ottobre che permettono all’Italia di fornire interi moduli abitativi per l'equipaggio e servizi di telecomunicazione.

Flavio Centofanti

IB

L'elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ha messo fine ai 4 anni della discussa presidenza di Donald Trump. Ma torniamo indietro di due settimane, al pomeriggio del 6 gennaio 2021 a Washington, quando migliaia di sostenitori di Trump hanno fatto irruzione nel Congresso degli Stati Uniti. Un evento senza precedenti nella storia degli USA che, insieme alla pandemia da coronavirus, è stata una delle ragioni dell'assenza di pubblico alla cerimonia d’insediamento del presidente Biden. Ció ha causato anche il secondo impeachment dell’ex presidente Trump, accusato di aver istigato i propri sostenitori ad assaltare Capitol Hill, che ha pronunciato in un comizio la mattina prima dell'attentato: “Oggi non è la fine. È solo l’inizio. Fermeremo il furto dei voti”, parole che hanno incoraggiato i sostenitori del presidente uscente alle azioni poi verificatasi quel giorno stesso. Dopo l’assalto al simbolo della democrazia americana il presidente Joe Biden ha definito l'accaduto un'insurrezione in piena regola che non rispecchia l’America e la natura degli americani, invitando la controparte a difendere pubblicamente la Costituzione. Al contrario l'ex presidente ha continuato a sostenere la non validità delle elezioni, esortando però i sostenitori ad abbandonare il Campidoglio e fare un passo indietro in nome della difesa della democrazia. Il giorno seguente, però, Trump ha riconosciuto l'attacco come un’offesa alla democrazia e ha accettato la sconfitta, permettendo una transizione sicura alla Casa Bianca e tuttavia comunicando tramite la pagina Twitter che non avrebbe partecipato alla cerimonia dell'insediamento del nuovo presidente.

L'accaduto dei giorni precedenti ha determinato un aumento della sicurezza a Washington il 20 gennaio e ha causato anche l'eliminazione definitiva dell'account di Donald Trump da Twitter, social che l'ex presidente aveva utilizzato come mezzo di critica alle elezioni e ai fatti di Capitol Hill. Già da tempo Twitter era intervenuto cancellando molti tweet oppure etichettandone altri come non veritieri. Dopo Twitter, altri social hanno agito di conseguenza bloccando l'account dell'ex presidente, per limitare la diffusione di messaggi di odio e violenza. Trump infatti ha fatto sentire molto la sua voce riguardo l'elezione di Joe Biden come nuovo presidente e si è esposto soprattutto tramite social definendo le elezioni una farsa. Utilizzando i social bisogna prestare attenzione ai contenuti condivisi: l'ex presidente ha ricevuto un gran numero di critiche da parte non solo dell'opinione pubblica ma anche di personaggi di un certo livello, causando la sua esclusione da molti social, una forma di comunicazione ormai estremamente utilizzata, a partire da Instagram, su cui molte persone sono connesse quotidianamente per visualizzare la storia o il post del giorno, TikTok, applicazione della sede cinese ByteDance, Facebook e Twitter, che hanno fatto registrare un crollo finanziario in seguito a questi eventi, dal momento che queste "Big Tech" hanno un forte peso sulla politica e ogni strategia o mossa viene controllata e presa in considerazione dalla Wall Street (sede della centrale Banca americana) che attribuisce un fattore economico a queste "industrie tecnologiche".

Simone Carbone II E

Vincenzo Lucci IV E

TRUMP E I SOCIAL MEDIA

Rapporti USA – Cina: Hong Kong ribelle e il genocidio di Pechino

Nel 1997 Hong Kong, ex colonia britannica, è ritornata alla Cina con lo status di “regione amministrativa speciale”. “Un Paese, due sistemi”: questa è la formula coniata dall’ex leader cinese, Deng Xiaoping, per indicare il rapporto tra Pechino e l’ex colonia, che possiede un sistema politico diverso dalla Cina continentale. Hong Kong gode di alcune prerogative, definite nella “Legge fondamentale” (la Basic Law del ‘97), e di una certa autonomia dal governo centrale cinese che, però, continua a cercare di estendere sempre di più il proprio potere a discapito di tale autonomia. In risposta a questi tentativi, sono nate negli ultimi anni una serie di rivolte che chiedono una maggiore democrazia e rispetto dell’autonomia della regione. In quest’ottica entrano in gioco gli Stati Uniti, che da sempre riservano a Hong Kong un trattamento “di favore”, con trattati speciali che permettono una maggiore facilità di scambi commerciali rispetto al resto della Cina: la crisi di Hong Kong è piombata dunque al centro dei rapporti tra Cina e Stati Uniti. A novembre 2019, il presidente degli USA Donald Trump ha firmato l'Hong Kong Human Rights and Democracy Act, norma a sostegno delle proteste pro-democrazia, osteggiando gli interessi di Pechino. "Ho firmato queste leggi per rispetto verso il presidente Xi Jinping e il popolo di Hong Kong – dice Trump - nella speranza che risolvano in maniera pacifica le loro differenze". Una seconda norma blocca le esportazioni verso Hong Kong di armi, tra le quali lacrimogeni e spray urticanti, per la gestione dell’ordine pubblico. La Cina, in risposta, ha cercato di impedire l’approvazione delle norme definendo la questione dell’ex colonia un “affare interno” alla Cina, accusando gli USA di "sinistre intenzioni e natura egemonica". Questa intromissione di Trump è stata comunque sollecitata e apprezzata da attivisti locali come Joshua Wong, che su twitter ha scritto: "Sono contento che il presidente Usa Donald Trump abbia firmato la legge pro-manifestanti 'HKHRDA' mentre le proteste continuano da sei mesi”. Anche in altri casi le sanzioni americane contro la Cina hanno dimostrato di sortire qualche effetto. Per esempio, quelle contro i politici di Hong Kong, colpevoli secondo Washington, di avere promosso la repressione interna: in primis la già contestatissima governatrice, Carrie Lam, che ha dovuto ammettere come non possa più avere un conto in banca o una carta di credito.

Dunque, Joe Biden, l’attuale presidente degli USA, ha apparentemente deciso di ereditare, dal suo predecessore, l’adozione di misure drastiche contro il governo di Pechino. Ultimamente è uscito allo scoperto anche il quasi genocidio commesso dalla Cina contro gli Uiguri, la popolazione musulmana nella regione dello Xinjian. Accusandola di stragi e torture ad oltre un milione di persone, il segretario di Stato di Trump, Mike Pompeo, conclude l'ultimo “attacco” dell'amministrazione Trump a Pechino un giorno prima del giuramento di Joe Biden; la Cina deve rispondere dei delitti dei “Crimini contro l’Umanità” e, appunto, Genocidio. Inaspettatamente, troviamo d'accordo anche il futuro segretario di Stato dell'amministrazione Biden, Antony Blinken il quale ha condiviso di prefigurare una politica estera che continuerà verso il duro confronto tra Stati Uniti e Cina: "Credo che il presidente Trump avesse ragione riguardo a un approccio più duro verso la Cina; sono in forte disaccordo sul modo in cui ha affrontato la questione in diversi settori, ma il principio-base era quello giusto" spiega Blinken. A ciò è seguito un intenso dibattito interno dopo che, il 27 dicembre, il Congresso ha approvato la legislazione che richiede all'amministrazione degli Stati Uniti di determinare entro 90 giorni se i lavori forzati e altri presunti crimini contro le minoranze musulmane sono contro l'umanità o un genocidio. Ma Pechino, negando le accuse di abusi agli Uiguri, definisce Pompeo "bugiardo e truffatore". Come se non bastasse, Twitter ha bloccato l’account dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti per un post pro alle politiche di Pechino nello Xinjiang, che secondo la piattaforma social violava le sue politiche contro la “disumanizzazione". I rapporti tra le due potenze sembrano dunque solo peggiorare, e pare che Biden abbia ereditato dal suo predecessore un bel po’ di fardelli cinesi da gestire, nella speranza che la situazione non giunga all’esasperazione.

IL DELITTO D'ONORE

Margherita Del Duca IIA

Noemi Buonaurio VE

Ester Pisani

IIA

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Il delitto d'onore è un reato caratterizzato dalla motivazione soggettiva di chi lo commette, volta a salvaguardare una particolare forma di onore. é spesso riferito ad ambiti relazionali come i rapporti sessuali, matrimoniali o familiari in generale.

Fino a poco tempo fa la pena per chi uccideva figlia, moglie o sorella "colto da stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia" prevedeva fino a un massimo di 7 anni di reclusione. Invece la pena per l'omicidio di qualcuno era punito con reclusione non inferiore a 21 anni. le disposizioni sul delitto d'onore sono state abrogate solo il 5 agosto 1981 (39 anni fa) ma questo non è bastato a porre fine a molti femminicidi giustificati con la scusa di una "reputazione" da salvare. 

REVENGE PORN: IL CASO DELLA "MAESTRA DI TORINO"

Flavio Centofanti           Margherita del Duca

           1B                                        IIA

Il “revenge porn” (letteralmente “vendetta porno”) è la condivisione non autorizzata di immagini o video intimi online, anche se il concetto si può estendere anche alla condivisione di questi elementi oltre l’internet. La maggior parte delle volte il contenuto viene caricato, certe volte insieme ad altre informazioni private, su siti o gruppi appositi. Altre volte viene mandato anche ad altri, causando la perdita dell’impiego, il dover cambiare città - spesso infatti il fenomeno sfocia nello stalking - nonché ripercussioni psicologiche e sociali. Le foto o i video in questione possono essere stati fatti consensualmente, per cui il partner che ha pubblicato il contenuto intimo lo possiede o perché gliel'è stato inviato o tramite la ripresa o cattura di foto effettuate dal partner stesso. Il problema, in questo caso, sta nel pubblicarlo e/o inviarlo ad altri senza il consenso della persona interessata. C'è anche la possibilità che la vittima non sia consensuale, probabilmente quindi ripresa o fotografata di nascosto o addirittura obbligata ad essere ripresa. È probabile anche che il contenuto sia stato rubato dal dispositivo della vittima.

La persona che possiede il materiale generalmente se ne può servire in due modi: condividendolo spesso per vendetta o per deridere; oppure tenendolo per sé e usandolo per minacciare la vittima. Il problema, però, sta anche in chi riceve il materiale e non denuncia l'accaduto. A fronte di ciò, la pena per la diffusione senza consenso e per chi riceve senza denunciare prevede la reclusione da uno a sei anni e il pagamento di una multa, secondo l'articolo 612 ter del Codice Penale. Spesso però accade che la vittima non reagisca perché teme di essere giudicata o di subire ulteriori conseguenze, denunciare l’accaduto raramente porta ad un esito felice per la parte colpita.

Il concetto di Revenge Porn si inizia a diffondere nel 2016, quando Tiziana Cantone, trentatreenne napoletana, assiste alla messa in circolazione da parte del fidanzato di un suo video intimo, e ciò la porta al suicidio. L’altrettanto deplorevole vicenda che vede come protagonista una donna in un comune del torinese ha riportato l’attenzione generale sul tema.

Lei ha ventidue anni ed è una maestra d’asilo. Condivide con un ragazzo che sta frequentando alcune sue foto intime e un video “hard”, fidandosi completamente. Non immagina che lui inoltrerà il tutto sulla chat del calcetto. Non immagina di assistere alla diffusione di materiale suo privato, che sarebbe dovuto essere visualizzato da una persona sola e scelta da lei. A questo punto, uno dei partecipanti del gruppo racconta la cosa alla moglie che riconosce nel video la maestra del figlio. Oltre al danno la beffa, perché il video viene diffuso anche sul gruppo delle mamme della classe e la donna chiede alla maestra un incontro; “Se lo denunci mando tutto alla dirigente scolastica”, la apostrofa. In breve tempo la notizia arriva anche alle orecchie della direttrice dell’asilo. Dove avrebbe dovuto trovare solidarietà, la maestra trova un’altra porta in faccia, perché la direttrice la costringe a dare le dimissioni e la espone anche ad una gogna pubblica davanti alle colleghe, definendola una depravata e assicurandosi che non riesca a trovare altro impiego se non “andare a pulire i gabinetti”.  Ora, dopo la denuncia l'ex fidanzato è stato condannato ad un anno di servizi socialmente utili con il risarcimento del danno. Il primo dicembre anche la direttrice ha affrontato il processo per diffamazione e violenza privata, e la maestra ha detto, al riguardo, di “essersi liberata di un peso”.

Questa è solo una delle tante storie in cui foto e video privati finiscono nelle mani sbagliate; è triste perché se ne parla poco, perché la giustizia in questi casi sembra voltare le spalle ma soprattutto perché cose del genere continuano ad avvenire. Avvengono ovunque e a chiunque, la situazione sembra non cambiare mai: eventi del genere sconvolgono vite intere, distruggono relazioni e rovinano le persone, spingendole in un baratro di vergogna e di angoscia da cui difficilmente troveranno mai il modo di uscire.

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Francesca Carbonara, IIIA

 

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MASCOLINITÀ TOSSICA

Sara Manco

IIC

 

La copertina di Vogue America del 13 novembre 2020 è stata dedicata a Harry Styles.

È stata una scelta particolare in quanto primo uomo a comparirvi da solo in 127 anni, ossia dalla fondazione della rivista. Il cantante è stato ritratto con addosso un abito blu mentre gonfia un palloncino.

Nell’intervista Styles si racconta ai lettori con una narrazione a ritroso delimitata, da un lato, dal più recente periodo di quarantena e dall’altro dall’epoca degli One Direction.

Il tutto è accompagnato da foto che lo ritraggono in outfit che hanno fatto parlare sia in positivo che in senso opposto. La sua immagine, pertanto, di certo non è sfuggita a una maison del livello di Gucci, che, ingaggiandolo, ha rinnovato non poco la percezione del brand attraverso ciò che il cantante rappresenta. Quegli outfit, infatti, non hanno fatto parlare semplicemente di lui personaggio, ma ben oltre di lui, poiché rimandano a una questione di portata parecchio ampia e non facile da affrontare.

La scrittrice Candace Owens, ad esempio, a commento delle uscite del cantante, ha dichiarato: “If I see a man in a dress I think he is a crackhead, I would never allow my kids near a man who is wearing a dress, it’s not normal”.

Alla dichiarazione di Owens, uomini anche influenti hanno reagito con foto e video in cui indossano indumenti usualmente non considerati maschili. Soprattutto tra i giovani sono molti coloro che cercano di contribuire a normalizzare l’idea che i vestiti non siano solo pezzi di tessuto. Sarebbe semplicistico affermare il contrario: lo possono ben testimoniare coloro che soffrono per le difficoltà ad affermarsi in contesti ostili.

Stili, colori, tessuti e tutto ciò che riguarda l’abbigliamento, hanno una propria storia.

Foto di bambini con l’abitino circolano in qualsiasi album di famiglia di inizio Novecento; il rosa in passato è stato anche un colore da uomini: persino Luigi XIV richiese scarpe con tacchi per apparire più alto e i volti dei faraoni venivano decorati con cosmetici naturali colorati a scopo simbolico.

La questione, come si diceva, è ampia e, tra le tante considerazioni che ne possono scaturire, può originare un dibattitto sulla cosiddetta “mascolinità tossica”. Ai tempi d’oggi, con questa espressione, si fa riferimento ad una rinnovata lettura critica di una narrazione di un uomo quale soggetto forte, non emotivo, capace di assumere posizioni distinte da quelle usualmente attribuite al “femminile”, posizioni connotate da un elemento negativo che aggredisce l’altro, indipendentemente dalla circostanza di essere uomo o donna. “Boys don’t cry”: esibire qualcosa di “femminile” rende deboli, poco credibili.

​Ciò detto, e fermo restando che l’abbigliamento è solo un possibile aspetto della questione, sono frequenti i contesti in cui un maschio, che non segua le normative di genere diffusamente attese, che quindi indossi una gonna, che usi del make-up, che metta smalto sentendosi così a proprio agio, viene considerato “effeminato”, laddove questo è in realtà solo un modo per  affermare la propria virilità.

Il fenomeno di cui si discute, non è soltanto attuale ma ha fatto capolino ripetutamente nel tempo, scontrandosi con le sensibilità sociali delle varie epoche. Non dimentichiamo quelli che possono definirsi i precursori del fenomeno tra cui Helen Hulick che sapeva a quali rischi sarebbe andato incontro indossando un paio di pantaloni. Tuttavia, non esitò a farlo, suscitando enorme  scalpore, e addirittura, scontando qualche giorno di carcere per tale gesto.

Ancora più noto, è lo scatto in cui Frida Kahlo viene ritratta con un completo del padre.

Cosi come, in tutt’altro contesto, la campionessa olimpica Violetta Morris, fu squalificata per il suo abbigliamento giudicato troppo maschile.

Oggi, tuttavia, in molti paesi, un uomo che indossi un abito lungo e aperto non è una novità. Sul piano artistico non lo è, ad esempio, nel mondo del K-Pop, dove spesso si indossano gonne, ci si trucca e si usa smalto. Lo stesso Harry Styles si ispira a icone immense come David Bowie.

Pertanto, questo suo modo di vestire non è considerabile come qualcosa frutto di improvvisazione, ma costituisce un’affermazione provocatoriamente consapevole di un messaggio che si vuole lanciare.

È un dato oggettivo che anche al di fuori del campo artistico questi messaggi vengono raccolti soprattutto dai più giovani che con il loro comportamento quotidiano tendono a normalizzare l’uso di indumenti, gioielli, trucchi o qualsiasi altro elemento stilistico connotato come “femminile” e quindi attribuito a un genere piuttosto che a un altro, in base a una bipolarizzazione convenzionale che si tenta di rimettere in discussione. Cosa che, si deve riconoscere, non è facile.

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BOICOTTAGGIO AD AMAZON, 

IL CAPITALE GLOBALE NELL'ERA DELLA FRENESIA

Fabrizio Gaeta, IA

Marcello Gemma, IIC

La sempreverde protesta contro Amazon che ha infiammato il dibattito nell’ultimo periodo ha radici decennali e parte dalla presa di posizione di due categorie che ugualmente soffrono lo strapotere del colosso di Seattle: i lavoratori della piattaforma di e-commerce e i commercianti al dettaglio, che si riuniscono periodicamente per lanciare delle rivendicazioni.

Da un lato sussiste un problema di rispetto dei diritti dei lavoratori, come denunciato nell’ultimo rapporto di Amnesty International su Amazon, dall'altro troviamo le vittime del monopolio dei clienti ed è qui che si deve porre un primo piano di distinzione tra una normale azienda e quella in questione, sottolineando che Amazon è il più grande esponente dell'anarco-capitalismo. 

Infatti, mentre le normali aziende hanno una base statale, le aziende di stampo anarco-capitalistico non posseggono quella stessa base statale ed evitano così processi di tassazione e regolamentazione. 

Prima di esprimere il nostro parere sul boicottaggio, è giusto fare delle precisazioni sul capitalismo. A differenza di altre dottrine economiche, questo non si basa su una vera e propria filosofia, come invece fanno il comunismo o il socialismo. 

Parlando di capitalismo individuiamo infatti solamente una base etica, ovvero quell’insieme di comportamenti che sono andati ad evolversi nell'era del turbocapitalismo. 

Si parla particolarmente di due aspetti che vanno a descrivere la nostra società: 

  • il primo è la frenesia con la quale il capitalismo ci fa vivere ogni aspetto della nostra esistenza, dalla scuola al lavoro fino alla spesa. Tutto deve essere eseguito in una velocità confusionaria che determina uno stato di stress generale che permea l'intera esistenza; 

  • il secondo aspetto è quello della comodità, che si pone in un rapporto ossimorico con la frenesia e si configura nella presenza di un oggetto o un’applicazione per fare qualsiasi cosa, spesso non realmente necessaria. Questa comodità, apparentemente positiva, si regge sull’acuizione di un’ingiustizia atavica, ovvero lo sfruttamento del lavoro di alcuni per il benessere di altri. 

Il punto è proprio questo: il capitalismo, nell’accezione più generale del termine, fa parte della storia dell’Umanità, ma negli ultimi settant’anni ha subito un processo di accelerazione ed espansione su scala globale che ha portato all’insorgere del terzo aspetto di caratterizzazione della nostra società, cioè il profitto potenzialmente illimitato e non etico. 

Ora come ora nei paesi occidentali si vive meglio di settant’anni fa: aspettativa di vita più alta, maggiore accesso all’istruzione, alle cure e al tempo libero. 

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È però giusto individuare il marcio che c’è nel sistema, tanto più se questo porta alla nascita di nuovi tipi di divisioni, emarginazioni e ingiustizie. Bisogna tuttavia portare la riflessione sul capitalismo a un livello superiore, senza limitarsi ad osservare che il sistema è sbagliato, ma capire perché è sbagliato, di cosa potremmo fare a meno e cosa costituisce invece già elemento imprescindibile per la società in cui viviamo. 

In tal senso nasce la nostra riflessione sul boicottaggio ad Amazon, atto politico, simbolico, sacrosanto e caldamente condiviso da chi scrive, ma a patto che si parta da un concetto ben preciso. Ben venga la protesta, che produca risultati o meno, ma si faccia attenzione a un aspetto: Amazon non è un negozio online, ma un modello economico, sociale e culturale di enorme impatto, principalmente, se non esclusivamente, negativo nel modo in cui è stato applicato. 

Qualsiasi alternativa ad Amazon deve passare o per un lento processo di cambiamento dei valori del consumo o per un’immediata presa di coscienza che, stando così le cose, l’e-commerce è ciò che ci attende nel futuro prossimo, con la speranza che anche piccoli e medi commercianti possano trovare uno sbocco su questo mercato. È per questo che invece di sperare in un immediato collasso del fenomeno, la società civile dovrebbe preoccuparsi di riconoscerlo, legittimarlo e studiarlo.

La conoscenza è, infatti, la chiave per colmare i vuoti legislativi nei quali i grandi colossi trovano facili scorciatoie per non rispettare i diritti dei lavoratori ed eludere il pagamento delle imposte.

ECONOMY FOR DUMMIES: RECOVERY FOUND, NEXT GENERATION EU, PATRIMONIALE

Francesco Ferorelli

IID

Verso la fine di maggio la Commissione europea presenta un piano di ripresa basato sulle potenzialità delle offerte di bilancio dell'UE. Esso è proposto per riparare agli svariati danni economico-sociali scaturiti dalla pandemia. Attraverso un QFP (quadro che stabilisce gli investimenti dell'UE nei successivi anni) l'Unione cerca inoltre di piantare le fondamenta di un'Europa più sostenibile.

Quindi cos'è il Recovery Found? 

È uno strumento finanziario che ha come scopo quello di rilanciare l'economia dei Paesi membri. In Italia i fondi arriveranno nei prossimi tre anni; e il Governo è ancora impegnato nel definire un Piano Nazionale di investimenti definito di "resilienza e ripresa". La Commissione pone su un piano prioritario un nuovo tipo di ripresa, basata sulla sostenibilità competitiva: infatti si parla di New Green Deal per identificare una serie di leggi, azioni e investimenti da realizzare nei prossimi trent'anni, mirati a combattere l'emergenza dei cambiamenti climatici. Per attuare questo piano di ripresa, vi è una duplice risposta: il Bilancio rafforzato per il periodo 2021-2027  è di circa millecentomiliardi di euro; Il Next Generation EU, cioè uno strumento destinato a rafforzare il bilancio dell'UE attraverso dei finanziamenti ricavati grazie ai mercati dei capitali. Esso si concentra principalmente su tre basi: Per prima cosa fornirà assistenza stanziando 47,5  miliardi di euro come risposta alla crisi, la REACT-EU.

Inoltre offrirà ulteriore assistenza tramite finanziamenti esterni a programmi come Horizon2020 e INVEST-EU e il Fondo per lo sviluppo rurale. Infinte Next Generation EU metterà a disposizione 672,5 miliardi di euro attraverso sovvenzioni e prestiti per sostenere le riforme e gli investimenti degli Stati Membri. L'obiettivo naturalmente è quello di attenuare l'impatto socio-economico  della pandemia, spingendo verso una ripresa che comprenda la transizione ecologica e digitale.

Nell’ultimo periodo tutti avranno sentito almeno una volta il termine patrimoniale, ed è cruciale chiarirne il significato: è un'imposta, non una tassa. La principale differenza è che le tasse sono corrisposte a fronte di un servizio ricevuto, le imposte non trovano riscontro immediato, ma sono utilizzate dagli Enti o dallo Stato per la collettività nel tempo. Questa imposta colpisce appunto il patrimonio: immobili, denaro, fondi, obbligazioni. Nonostante sia un mezzo già sfruttato in passato, ad esempio dal Governo Amato nel '92, c'è ancora poca chiarezza. Vi sono svariate proposte, svariate linee di pensiero, naturalmente in contrasto fra loro. Da un lato, essa viene considerata giusta, per redistribuire il reddito e aiutare le fasce più povere, danneggiate ulteriormente dalla pandemia. Dall'altro considerata sbagliata poiché questa imposta, colpendo il patrimonio, risulta come un prelievo a beni già assoggettati al fisco.

DA CHURAILS ALLA REALTA’

Gaia Della Ragione IA

​Alessia Formisano IA

"Non tutti i supereroi indossano un mantello: alcuni portano il burqa". Con questo slogan la serie tv Churails, "streghe”, non poteva che fare rumore, scuotendo alle radici un Paese, il Pakistan, che nei doppi standard sulle donne affoga da anni, ma che ha dato al mondo musulmano la sua prima premier donna, Benazir Bhutto. Le protagoniste sono un'assassina appena uscita di prigione, un’ex avvocatessa, una giovane pugile e una wedding planner, che si trovano messe in un angolo da uomini prepotenti ed egoisti. Decidono così di creare un'agenzia di investigazione per indagare su quelli che vengono definiti “maledetti uomini” e sui loro segreti: mettono su un lussuoso negozio di indumenti islamici nel cui sotterraneo nascondono armi e telecamere. Ed è proprio il luogo in cui è ambientata la vicenda il protagonista della mini serie. Quando le indagini si fanno scottanti, a causa di varie intimidazioni, le detective sono costrette ad arrendersi almeno per un momento. L'episodio in cui una donna racconta le umiliazioni subite sul posto di lavoro ha scatenato le ire della censura, costringendo la piattaforma della serie a sospenderla, per poi mandarla in onda nuovamente con qualche modifica. "Ho voluto mettere uno specchio davanti alla nostra società", ha spiegato il regista Asim Abbasi. Ed è riuscito perfettamente nel suo scopo: il Pakistan di Imran Khan, convertito all'Islam più intransigente, guarda Churails con malcelato astio. Le tematiche trattate in modo così esplicito hanno allarmato il Governo: matrimoni precoci e forzati, abusi e razzismo, disuguaglianze di classe e violenza domestica dominano realmente il panorama del Paese. Gli esperti hanno definito la serie un vero e proprio punto di svolta che potrebbe aprire nuove strade alle donne pakistane, abbattendo stereotipi e mettendole al centro della storia. Se alle 3 del mattino termina il carburante in autostrada è prevedibile che un gruppo di uomini derubino e stuprino una donna davanti ai suoi figli: secondo il più alto funzionario di polizia di Lahore, Umer Sheik, la donna avrebbe potuto evitare di trovarsi in tale situazione e quindi è in parte colpevole.

Il fenomeno della violenza domestica è proprio in Pakistan che si è notevolmente intensificato con la pandemia: il 55,6% degli uomini e il 64,1% delle donne hanno confermato di aver osservato più casi di violenza. Ciò si è verificato in tutto il mondo, anche in Italia dove dal mese di marzo 2020, mentre le strade si svuotavano e le porte di casa si chiudevano per combattere il COVID-19, la pandemia ha registrato una crescita esponenziale sulla violenza verso le donne. La raccomandazione di stare a casa per contrastare la diffusione del virus ha costretto coloro che convivono con un partner o un altro familiare violento a rimanere isolate, 24 ore su 24, con coloro che esercitavano abusi nei loro confronti. Nel 2019 2.251 persone hanno chiamato per denunciare violenza in casa, mentre nel 2020 lo hanno fatto 5016 persone. Sono anche raddoppiate le chiamate per episodi di violenza in case altrui, ed è inoltre aumentata, nonostante il lockdown, la violenza per strada: 74 telefonate in quattro mesi, contro le 15 del medesimo periodo del 2019. Quest’anno, come precedentemente detto, sono più che raddoppiate le segnalazioni di violenza. A Casal di Principe c’è un centro anti-violenza per donne maltrattate chiamato Casa Lorena. Ad oggi le donne ospitate sono 78, ma molte non hanno potuto accedere alla struttura per via delle misure di sicurezza anti-Covid. All’inizio del primo lockdown le richieste d’aiuto sono calate ma poco dopo le donne sono tornate chiedendo ospitalità con urgenza. Così qui operatrici e psicoterapeute si sono subito attrezzate per escogitare nuovi modi per aiutare le donne in difficoltà attraverso gruppi criptati su Whatsapp e chiamate via Skype. Quindi, nonostante la pandemia, ci sono ancora persone disposte ad arginare un fenomeno così diffuso  ed a non lasciare anche in un periodo così difficile le donne abbandonate a loro stesse. 

MARADONA E (IL) NAPOLI

Marcello Gemma, IIC 

 

Giulia Pallonetto, II A 

 

    Vincenzo Lucci       Chiara Pironi

                               IVE

Non c’è bisogno di spiegare cosa sia successo. Ormai la notizia ha fatto il giro del mondo ed è sulla bocca di tutti. È morto Diego Armando Maradona, il calciatore più forte della storia. Ha giocato per 7 anni nel Napoli, facendogli vincere molti trofei e portando la squadra, che era solita piazzarsi a metà classifica, sul tetto d’Italia. Ma Maradona per Napoli non è stato soltanto un calciatore, o un capitano: è stato un simbolo di riscatto per la città, da sempre guardata dall’alto verso il basso dal Nord, l’idolo dei ragazzini poveri di Napoli, i cosiddetti “scugnizzi”, come lui che da piccolo viveva nelle stesse condizioni.

Maradona firma con il Napoli l’ultimo giorno di calciomercato del 1984, dopo tanti tira e molla con il Barcellona.

Si capisce che il Pibe de oro avrebbe cambiato le sorti del piccolo Napoli il 3 novembre 1985: è il suo secondo anno e si gioca Napoli-Juve. Maradona segna su punizione il goal che permise alla squadra di vincere la partita.

Il Napoli non vinceva contro la Juventus da 12 anni. Ma la stagione si conclude con i partenopei che si devono accontentare di un terzo posto. Nella stagione 1986-1987 però il Napoli riesce a vincere lo scudetto, Maradona riesce a compiere l’impresa e il Napoli ottiene il riscatto che aspettava da anni: può finalmente guardare le potenze del Nord dall’alto verso il basso almeno per una volta. Maradona farà vincere al Napoli anche un altro scudetto e un’Europa League.

Nei mondiali del 1990 si scontrano in semifinale Argentina e Italia al San Paolo, e gli Italiani hanno paura di chi potrebbero tifare i Partenopei. Da una parte gioca l’Italia, la loro nazionale, dall’altra gioca Maradona, il calciatore che li ha fatti sognare e che ha dato alla loro squadra una fama internazionale. Il fenomeno argentino sarà durissimo nelle interviste, dicendo che l’Italia si ricorda di Napoli e dei napoletani solo quando le conviene. All’epoca in tutti gli stadi del Nord i Partenopei venivano regolarmente insultati con cori razzisti e contro il popolo meridionale. Inoltre Maradona dice che l’Italia chiede ai Napoletani di essere italiani quando dovrebbe essere l’Italia a ricordarsi dei napoletani.

Nel 1985, pochi mesi dopo l’arrivo di Maradona al Napoli, un difensore della squadra Partenopea chiese al presidente se la squadra potesse partecipare a un’amichevole di beneficenza per un bambino malato di Acerra per farlo partire per Parigi dove avrebbe dovuto subire un intervento. Il presidente Ferlaino rifiutò, perché non voleva rischiare le gambe dei propri giocatori per una futile amichevole, ma Maradona decise di organizzare comunque la partita che si giocò in 12 contro 12 per aggirare le regole, nel campo di Acerra. C’era appena stato un temporale che aveva reso fangoso il campo: lo stadio poteva contenere un massimo di 1000 persone, ma secondo alcune fonti in quella partita ce ne furono 4000, secondo altre, invece 10000. Ben presto la quota fu raggiunta, e il bambino poté partire per Parigi.

Qualunque giocatore si ispira a una leggenda come Maradona: questo calciatore ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo, ma soprattutto nella città che ha reso grande con il suo meraviglioso gioco.

Ma cos’era veramente Diego Armando Maradona per Napoli?

Un esempio da seguire, nonostante non abbia vissuto una vita esemplare. Un Dio da venerare, una persona da amare.

Era il 1984 quando Maradona incontrò per la prima volta i suoi tifosi (70mila): per la grande emozione riuscì a dire solamente “Buonasera napoletani”, dimenticando il suo discorso.  Tutti avevano già scommesso su di lui e lo ritenevano un re. Ma Maradona non era solamente il “Pibe de oro”, il rapporto della città con il calcio c’entra davvero poco: egli è infatti riuscito ad entrare nel cuore e nella mente del popolo napoletano difendendo ed amando la sua città. 

Nel 2017, a Piazza Plebiscito, il mitico calciatore ottenne la cittadinanza onoraria di Napoli: “Mi sono sentito napoletano dal primo giorno che ho indossato la numero 10 e dedico questa cittadinanza ai miei giocatori.” Affermò quel giorno.

Maradona era innamorato dei Partenopei, e per nulla al mondo li avrebbe abbandonati. Pur avendo infatti ricevuto numerose proposte da altre squadre, non tradì mai il popolo ormai diventato parte del suo cuore. In un’intervista, dopo la vittoria contro la Juventus, dichiarò: “C’era la sensazione che il Sud non potesse vincere contro il Nord. Andammo a giocare contro la Juve a Torino e gliene facemmo sei: sai che significa che una squadra del Sud gliene mette sei all’avvocato Agnelli?”. Maradona ha dunque rappresentato per Napoli una rivalsa nei confronti del Nord, quel Nord che aveva sempre dominato in Italia.

«San Gennà, non ti crucciare, tu lo sai ti voglio bene. Ma 'na finta e Maradona squaglia o' sanghe dint 'e vene». Una delle citazioni del film “Così parlò Bellavista” di Luciano de Crescenzo, in cui paragona Maradona a San Gennaro, simbolo della città di Napoli.

Tutti erano a conoscenza del fatto che Maradona fosse “irregolare”, ma l’amore per lui non cambiò mai e così sempre sarà. Il nostro Diego rappresenta uno di quei miti che non spariscono facilmente, uno di quei miti che vengono tramandati di generazione in generazione. I nostri figli e così i nostri nipoti attraverso i tanti racconti lo conosceranno per quello che è stato.

Re dei Meridionali, difensore dei Sud del mondo, paladino di un sentimento di riscatto di popoli da sempre mortificati e denigrati: ecco chi era Maradona, cosa ha rappresentato nella storia e come verrà ricordato. Un ragazzino povero, come tutti gli “scugnizzi” napoletani per cui ha tanto lottato. Un uomo capace di incarnare come nessuno altro un simbolo di rivalsa per la nostra città oppressa dai pregiudizi e ricoperta dagli insulti di un Nord privilegiato ed economicamente superiore. Il Masaniello degli anni ’80, quello della guerra contro i potenti, quello della speranza di un cambiamento per la gente napoletana.

Ha illuminato gli occhi e scaldato il cuore di un popolo orgoglioso della propria identità, con lui il sogno dei meridionali finalmente diventava reale: era arrivato il riscatto tanto atteso da un Sud dimenticato, trascurato e illuso. Un riscatto che portava il nome di Diego Armando Maradona. Per alcuni addirittura è “l’ultimo rivoluzionario”, l’ultima voce dei desideri e delle frustrazioni degli oppressi e dei delusi da una società capitalista, che facilita solo i ricchi e reprime chi non può far parte di questa èlite economica. Per altri è un’icona della lotta per la libertà che si stacca dal rettangolo del campo da calcio e arriva nelle strade del Sud. Un’icona incomperabile, senza prezzo, che mai si sarebbe volutamente venduta. Un’icona fedele alla sua Napoli e uno schiaffo all’arroganza del potere e dei soldi che da sempre l’hanno governata. 

Il Pibe è stato molte cose e, spesso, egli stesso ha dichiarato che gli sembrasse di aver vissuto più di quanto effettivamente aveva. È stato l'esempio lampante di genio e sregolatezza, di rivalsa, di sentimento cittadino e dell'arte di arrangiarsi tanto cara a tutti i napoletani, ma, più di tutto, è stato il simbolo per eccellenza del calcio che sfonda la politica e le sue ipocrisie, spesso con un'onestà che risultava fastidiosa a chi subiva i suoi attacchi, e, anche per chi di calcio ne sa ben poco, è impossibile dichiarare di non essere rimasti di sasso davanti alla morte dell'ultimo portavoce di questa città.

Ma a Napoli Maradona resterà per sempre vivo: nelle piazze, sui murales, nelle chiacchiere di chi può vantarsi di averlo visto e di chi invece può solo ascoltare.

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DA LANÙS AI MONDIALI

Ludovica Cavallo VC
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Sono ormai giorni che su tutte le testate giornalistiche si scrive solo della morte di Diego Armando Maradona.

Ma chi era veramente Diego Armando Maradona?

Su molte riviste calcistiche, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, ai grandi della disciplina del periodo, come Zico o Platini, si affiancava il nome di un ventenne argentino: Diego Armando Maradona, più comunemente conosciuto con l’appellativo di “El Pibe de oro”.

Maradona nasce a Lanùs in Argentina nell’ottobre del 1960. All’età di solo dieci anni inizia la sua militanza nel mondo del calcio, nelle giovanili dell’Argentinos Juniors, per poi passare già nel 1976, a sedici anni, alla prima squadra del club. Un Maradona appena ventenne passa poi al Boca juniors, società polisportiva con sede a Buenos Aires, tra le più importanti dell’Argentina.

Solo un anno dopo Diego partì alla volta della Spagna, inseguendo il sogno blaugrana, approdando nelle file del Barcellona.

Nella stessa estate disputò anche i Mondiali con la sua amata Argentina, vinti però dall’Italia di Bearzot. Nonostante fosse andata a segno molteplici volte e fosse stato un punto cardine del Barcellona, non divenne mai un idolo dei suoi tifosi, anche a causa di un infondato e subdolo razzismo nei confronti dei sud-americani, in particolare degli argentini, che erano chiamati, in tono dispregiativo, “sudaca”. A ciò si aggiunse un gravissimo infortunio dovuto a un fallo assassino durante la partita con l’Atletico Bilbao che mise a rischio la carriera di quello che verrà poi considerato il calciatore più forte di tuti i tempi.

Furono queste le ragioni principali che portarono El Pibe de oro a decidere di lasciare la Spagna per recarsi altrove.

La fortuna volle che all’epoca, ad intercettare il clima di rottura fra l’argentino e i blaugrana, fosse Pierpaolo Marino, il dirigente dell’Avellino calcio.

In occasione di una gara amichevole tra irpini e spagnoli, Marino venne informato da Ricardo Fujica, intermediario argentino, della possibilità di comprare il fuoriclasse. Il dirigente dell’Avellino informò allora Juventus e Sampdoria dell’occasione, che però non si mostrarono interessati all’acquisto.

Trasmise l’informazione a Juliano, dirigente sportivo del Napoli. Un mese prima che i giornali iniziassero a parlarne, la trattava era già iniziata; Dino Celentano, socio e dirigente azzurro, ospitò nel suo albergo ad Ischia Jorge Cysterpiller, presidente della Maradona Producciones, società ingaggiata per valorizzare mediaticamente e commercialmente il nome e l’immagine di Maradona.

Dinanzi all’ammaliante e straordinaria bellezza del golfo, Diego e i suoi manager iniziarono realmente a valutare l’ipotesi di un trasferimento. Iniziò così una delle trattative più lunghe ed estenuanti della storia del calcio, che vide protagonisti Celentano e Juliano, i quali per circa un mese fecero da ponte tra la società degli azzurri e Gaspart, presidente blaugrana. Nonostante l’esitazione della società spagnola, grazie ai 13 miliardi versati dal Napoli, Diego Armando Maradona finalmente si vestì d’azzurro. A Napoli i tifosi già fremevano di gioia; sulle bancarelle si vendevano migliaia di maglie, sciarpe e cappelli con il nome della star argentina. Prima che la trattativa andasse in porto vennero registrati all’anagrafe circa centodieci bambini con il nome Armando o Diego; la città già presagiva cosa avrebbe rappresentato il campione per la città.

Maradona venne finalmente presentato il 5 luglio 1984 alle 18:30 in un San Paolo gremito di gente, accorsa nell’occasione solo per omaggiarlo e augurargli il benvenuto.

El Pibe de oro mise a segno il suo primo goal con il Napoli il 22 agosto 1984, durante un incontro di Coppa Italia, tra Arezzo e Napoli. Una punizione dalla distanza di venticinque metri si trasformò in una parabola che arrivo dritta nel sette della porta avversaria. Un goal che non emozionò solo le migliaia di tifosi, ma anche il padre di Diego, Diego Senior.

La prima stagione del Pibe a Napoli terminò con 14 goal; i napoletani intuirono che le cose stavano cambiando e già si chiedevano quale sarebbe stata la stagione fortunata in cui Diego sarebbe riuscito a regalare lo scudetto.

Tale traguardo non si fece attendere; infatti, il 10 maggio 1987, Diego regalò al Napoli il suo primo scudetto. I napoletani festeggiarono anche per la vittoria della Coppa Italia. L’intera città e tutto il popolo dei tifosi partenopei erano in festa; il rumore squillante dei clacson echeggiava nelle vie della città; i cori di tifosi e degli ultras erano intonati a squarciagola in ogni angolo e quartiere.

Tale scenario non tardò a replicarsi, quando, appena due anni dopo, nella stagione 1989-1990, il Napoli rivinse lo scudetto ed El Pibe de oro si confermò per l’ennesima volta non solo un campione dal punto di vista calcistico, ma un vero e proprio simbolo per l’intera città di Napoli.

La carriera di Maradona nel Napoli finì nel 1991, quando per motivi diversi da quelli calcistici, Diego fu costretto ad abbandonare Napoli e l’Italia. Dopo una breve parentesi in Europa, ritornò in Argentina, suo paese nativo, dove la favola ed il mito avevano avuto inizio.

Quando si ritirò definitivamente nel 1997, lasciò un vuoto enorme nel cuore non solo dei napoletani e degli argentini, ma in quello di tutti gli appassionati del calcio.

Finita la carriera del calciatore, cominciava il Mito.

SECONDA ONDATA

breve parentesi di un'emergenza

   Giuliana Liguori      Davide Buonaurio
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L’epidemia nella sua prima fase (febbraio/marzo 2020) ha visto una rapida diffusione dei contagi, che ha reso necessaria una limitazione drastica degli spostamenti tra Paesi e all’interno degli stessi: “lockdown” è presto divenuta la parola più ricorrente nel web. Da marzo in poi è stato possibile seguire l’andamento epidemiologico che, con parametri diversi di crescita e decrescita dei contagi, ha progressivamente determinato uno slittamento verso la “normalità” con la riapertura nel mese di giugno. Con l’avvento delle vacanze estive e la registrazione di eccessivi flussi di turismo interregionali, era scontato parlare di un’imminente seconda ondata; così dal decremento dei casi tra giugno e luglio si è prima visto uno scenario di stabilità ad agosto (a circa 12 mila casi), poi una lenta ripresa a cavallo tra agosto e settembre, forse inizialmente un po’ troppo sottovalutata, che ad ottobre ha determinato l’aumento esponenziale della curva dei contagi. La prima cosa da tenere in considerazione quando si confrontano le due ondate è il fatto che siano avvenute con due diverse capacità di testing: la maggiore difficoltà avvertita durante la prima ondata è stata, infatti, la necessità materiale dei tamponi, richiesta che le regioni maggiormente colpite non sono riuscite a soddisfare. Dunque a marzo i test non erano sufficienti per avere una fotografia reale dell’epidemia, per non parlare della dispersione dei dati nella conduzione di un’indagine di siero-prevalenza indetta dal Ministero della Salute e dall’Istat, basata su un criterio di rilevazione statistica, per questo parziale; al termine dell’indagine, si è infatti scoperto che i casi dichiarati erano una minima parte del totale. A marzo, inoltre, a causa dei limiti di testing, ci si concentrava solo su persone in condizioni cliniche gravi se non critiche, mentre ora si pone particolare attenzione ai dati relativi al numero di asintomatici, che erano e rimangono la principale causa di nuovi contagi. Volendo ulteriormente analizzare ciò che è sembrato palesarsi in questa “drammatica parentesi” di vita mondiale comunitaria, balza agli occhi come i Paesi più evoluti e più economicamente strutturati abbiano avuto un netto privilegio rispetto ad aree meno sviluppate quanto a sanità pubblica, e ciò temo avverrà anche nell’accaparramento delle dosi di vaccino di cui tanto si parla.

Riguardo la curva epidemiologica, l’Europa è uno dei continenti più colpiti: la curva si è impennata precipitosamente fino ad arrivare a circa 70 mila contagi a fine novembre, per un totale di 16 Mln di contagiati.

A livello mondiale, gli USA, l’India e il Brasile sono i tre Paesi più colpiti. Diversamente, quello dell’estremo oriente rappresenta il miglior modello al mondo di risposta alla pandemia, caratterizzato dall’uso dei big data come opzione di tracciamento di massa, che talvolta ha reso possibile un lockdown parziale (alcune nazioni, come Cina, Taiwan, Corea del Sud e Singapore sembrano non essere state nemmeno toccate dalla seconda ondata).

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Com’era ovvio, diverse sono state le disposizioni adottate in ciascuno Stato: alcuni Paesi, come la Svezia, hanno stabilito un rapporto di inter-fiducia con i cittadini, esortandoli al cosiddetto “distanziamento sociale volontario”; poi, per via del risultato, hanno dovuto imporre nuove restrizioni. Non dissimili sono stati i provvedimenti nei Paesi maggiormente colpiti: ora come ora, i lockdown sono previsti sino al termine dell’emergenza. L’avvento di una seconda ondata pandemica e dei conseguenti lockdown ha tramutato la speranza di un ritorno alla normalità, sostenuta da promesse politiche tuttora rimaste astratte, in una demoralizzante disillusione di massa, che in Italia, Berlino, Londra, Varsavia, Marsiglia e Praga si è concretizzata in violente manifestazioni contro la chiusura totale, vomizioni di rabbia e delusione di un popolo che non sa più in cosa credere. Sono scese in piazza tutte le categorie sociali, premendo, forse sconsideratamente, sulla richiesta di riapertura e di libertà. Una libertà che è stata sospesa in tutto il mondo per fronteggiare l’attuale minaccia pandemica e per dare spazio al benessere comune. Dov’è quest’ultimo, tuttavia?

 

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IL CILE RINASCE

Giulia Pallonetto
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Il Cile rinasce. Rinasce con le proteste. Rinasce con la tenacia del popolo. Rinasce con una nuova Costituzione. Il 25 ottobre 2020, dopo circa vent’anni dalla Costituzione introdotta da Pinochet nel 1980, il sì vince con il 78,12% di voti: i cittadini cileni votano per una nuova Costituzione e si lasciano alle spalle l’era del regime terroristico e la sua politica liberista.

Il popolo cileno, schiacciato dalla dittatura di Pinochet e dal governo di destra del presidente Sebastián Piñera, è stato per oltre trent’anni vittima di disuguaglianze sociali e di un sistema che ha favorito  l’apparato privato rispetto al pubblico, proteggendo la classe imprenditoriale a scapito dei dipendenti e marcando la profondità del solco tra la classe più povera e i ricchi, custodi della sanità, dell’istruzione e dei trasporti. 

Il 18 ottobre 2019 i cittadini cileni esplosero in manifestazioni per dimostrare il loro disappunto verso un sistema non paritario. L’intero Paese pretendeva un cambio: diritti umani come lo studio per tutti, una riforma delle pensioni, la statalizzazione dell’acqua.

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Il desiderio di libertà riecheggiava per tutte le strade e ogni giorno diveniva più forte della paura e della violenza; la speranza di una rinascita viaggiava nelle menti di uomini e donne, studenti e studentesse. Una massa così imponente da risultare irreprimibile e ingestibile per il governo, costretto a fare un passo indietro, in favore di un nuovo referendum costituzionale. 

La protesta passa dalle piazze ad un reale progetto politico, dalle strade alle urne: il popolo cileno è chiamato a votare per ottenere una nuova Costituzione e per scegliere le persone che dovrebbero redigerla. La decisione finale è quella di ripartire da zero, annullare il passato e risorgere più democratici che mai: nuova Costituzione e nuova Assemblea costituente, composta esclusivamente da nuovi membri (155), eletti direttamente dal popolo secondo un criterio di parità di genere e con una rappresentanza di delegati delle popolazioni indigene. 

Questi membri verranno eletti l’11 aprile 2021, mentre l’Assemblea costituente avvierà i suoi lavori nel maggio 2021, i cui risultati saranno poi sottoposti al giudizio popolare tramite un altro referendum previsto per il secondo semestre del 2022. In caso di approvazione, la nuova Costituzione entrerà in vigore immediatamente, sostituendo la precedente.

Si tratta di un nuovo capitolo per il Cile, la dimostrazione che la lotta ripaga e che l’unità prevarica sulla divisione, la pace sulla violenza. Una ripartenza che vede le sue basi in un’istruzione di qualità, nella sanità pubblica, in un nuovo sistema di pensioni, negli alloggi popolari e nel diritto ad una vita felice dopo anni di paura e silenzio. Un voto storico che segna il ripudio perentorio contro il modello neoliberale all’origine di tutte le diseguaglianze create dalla dittatura e vissute dai cileni in questi ultimi anni. Il simbolo di un popolo che, nonostante una pandemia globale e le perpetue repressioni, ostacolato e soffocato, non smette mai di combattere per continuare a scrivere la propria storia. 

RAPPORTO IMMIGRAZIONE-PANDEMIA

Mariachiara Mallardo 2A   
 

                                           

 Rosa Letizia Granata    Federica Clemente   

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Simone Carbone 2E

                                                      

Sul tema immigrazione si è discusso abbastanza nell’ultimo periodo e ci sono state delle opinioni contrastanti riguardo lo sbarco sui confini "migratori" soprattutto nella fase tra I e II lockdown. I soliti politici di turno che sono a difesa delle frontiere favoriscono la chiusura dei confini, impedendo uno spazio a rifugiati che hanno motivi concreti per sbarcare. Ora, se nel primo lockdown si sono presentate queste difficoltà, nel secondo sono andate ad accrescersi, annichilendo così ogni possibilità di trovare un rifugio sulle zone migratorie. Per comprendere appieno come la pandemia abbia influenzato il fenomeno migratorio e per analizzarne i mutamenti nel periodo precedente e successivo ad essa, non si può non evidenziare l’impatto che ha avuto il cambiamento della politica migratoria in Italia durante il primo ed il secondo Governo Conte. Nel primo governo Conte, l’allora Ministro degli interni Matteo Salvini ha attuato la politica del blocco degli sbarchi chiudendo i porti alle navi delle ONG: ciò ha avuto l’effetto di ridurre il numero dei migranti provenienti dall’Africa arrivati in Italia che nel 2019 sono stati 8.428 a fronte dei 52194 del 2018. Nei 13 mesi successivi con il Ministro Lamorgese gli arrivi dei migranti si sono triplicati fino a raggiungere la quota di 27.775 in un solo anno. Il dato numerico in sé non può esprimere la complessa realtà del fenomeno. Dal 1 ottobre l’OIM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) riferisce la registrazione di ben 8 naufragi nelle acque del Mar Mediterraneo. Uno dei più recenti si è verificato in Libia, luogo in cui infuria la guerra civile e le persone cercano ancora di affidarsi ai trafficanti per cercare di fuggire, nonostante l’assenza delle ONG nel Mediterraneo centrale. Ciò ha causato la morte di 74 persone su 120, i cui corpi sono in parte ancora ricercati dalle autorità. Nelle stesse 24 ore e nella medesima zona, si è compiuta l'ennesima tragedia che ha causato la morte di altri 20 migranti, fra cui diversi bambini. A darne la drammatica notizia è stata l’Open Arms, l’unica ONG attiva a causa delle restrizioni Covid nel Mediterraneo. Nel suo appello ha pregato gli Stati europei ad adottare un approccio differente nei confronti della Libia e del Mediterraneo e ne ha condannato l’inazione, il cui prezzo viene pagato da migliaia di persone vulnerabili. È da tempo ormai che l’OIM definisce la Libia un porto poco sicuro, ove è noto come i migranti vengano detenuti, abusati, sfruttati e dunque privati di ogni diritto fondamentale. Pensare che quest’anno vi sia stato il rimpatrio di circa 11.000 migranti in questo paese rende il tutto paradossale.

Le continue restrizioni al lavoro delle ONG devono essere rimosse e i loro interventi devono essere riconosciuti quali attività che rispondono all’imperativo umanitario di salvare vite umane. Il soccorso dei naufraghi è un obbligo imposto dal diritto internazionale, recepito dalla Costituzione (art.10) e non può qualificarsi come agevolazione dell’immigrazione irregolare.

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Diverse imbarcazioni di legno partite dalla Tunisia e dalla Libia hanno raggiunto le coste di Lampedusa, entrando in porto dopo essere state intercettate dalla Guardia di finanza. Quando uno Stato non può garantire l’intervento SAR che gli compete, la competenza rimane sulle autorità del primo paese che ha avuto notizia dell’evento di soccorso e che può garantire un porto sicuro di sbarco (Place of safety-POS)

Frontex (agenzia europea della guardia di costiera) continua a scambiare operazioni di soccorso in mare per attività di favoreggiamento dall’immigrazione “clandestina”. Gli assetti aerei dell’operazione Frontex svolgono nel Mediterraneo il “law enforcement”, ma alternano lunghi periodi di inattività (mancanza delle ONG) al monitoraggio delle attività di soccorso degli operatori umanitari, piuttosto che al tracciamento degli scafisti. Gli agenti Frontex non salvano vite ma preparano denunce per fare fuori le ONG che si ostinano ad operare soccorsi umanitari. Piuttosto che andare a tracciare le imbarcazioni che hanno bisogno di soccorso, restano a sorvolare le navi umanitarie, che hanno già salvato decine di vite umane,  per preparare le basi di future imputazioni. Sarebbe finalmente tempo che le navi militari della Guardia costiera e della Marina tornassero a presidiare il Mediterraneo centrale anche in funzione di soccorso, come era avvenuto sino alla fine del 2017. Dunque sia organizzazioni elaborate e complesse, in particolare lavorative dove sono presenti vicende di sfruttamento, che studentesche puntano su vertenze ed inchieste al fine di lottare per tutti quei diritti preesistenti che molte volte sono violati costituzionalmente. La componente studentesca propone una vera e propria educazione in grado di migliorare il futuro: in caso di abolizione di diritti si farà sempre ricorso all'organo istituzionale da cui si prenderanno provvedimenti.

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