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2020-2021: i nostri articoli

DDL ZAN?

FACCIAMO UN PO' DI LUCE

Federico Cipolla
IIB
Nicolò Popolo
IIIC

Dopo l’approvazione alla Camera avvenuta nel novembre 2020, il Ddl 2005 contro l’omobilesbotransfobia, ribattezzato anche "legge Zan" dal cognome del relatore Alessandro Zan, deputato del Pd esponente della comunità LGBT+, è tornato al centro del dibattito politico. Il disegno di legge, infatti, si è bloccato al Senato dopo che la Lega, ma anche le altre forze del centrodestra, Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno definito il provvedimento non prioritario, non consentendo così l’avvio della discussione in commissione Giustizia. Ma per chi se lo fosse perso, cos’è il DdL Zan? Il DDL S. 2005 - XVIII Leg. è un disegno di legge sulle misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sulla disabilità, che si propone di modificare, o meglio ampliare, gli articoli 604-bis, 604-ter del codice penale, l’articolo 90-quater del codice di procedura penale ponendosi come unificazione dei disegni di legge d'iniziativa dei deputati Boldrini e Speranza, Zan, Annibali ed altri: questo perché al giorno d’oggi tutte queste categorie di discriminazioni non considerate all’interno del codice penale oppure private di una definizione, grazie al nuovo disegno di legge sarebbero incluse e definite, tutelando così chi le subisce. Inoltre, ai fini della verifica dell’applicazione della legge e della progettazione e della realizzazione delle politiche che promuove, l'Istituto nazionale di statistica, nell’ambito delle proprie risorse e competenze istituzionali, sentito l’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (OSCAD), assicurerebbe lo svolgimento di una rilevazione statistica con cadenza almeno triennale. La rilevazione deve misurare anche le opinioni, le discriminazioni e la violenza subite e le caratteristiche dei soggetti più esposti al rischio, secondo i quesiti contenuti nell’Indagine sulle discriminazioni condotta dall’Istituto nazionale di statistica a partire dal 2011. Il Ddl sta spopolando sui social negli ultimi giorni: personaggi famosi, da artisti a influencer, mostrano la mano con su scritto “Ddl Zan” e l’hashtag #diamociunamano. In generale sono numerosissimi i personaggi pubblici a favore del disegno di legge, da Cristina D'Avena ad Alessandra Amoroso, dai Tiromancino a Loredana Bertè e addirittura ad Alessandra Mussolini. D’altro canto nel nostro Paese queste tematiche sono solite trovare un terreno piuttosto impervio per motivi ideologici e culturali, in quanto è un dato di fatto che la cultura italiana ha risentito e risente della permeante influenza ecclesiastica. Non a caso questo disegno di legge ha fatto molto parlare di sé scaldando gli animi di coloro che hanno sentito minacciata la propria libertà d’espressione (considerandola assoluta) o addirittura temono che si apra la strada a “mostruose” pratiche come l’utero in affitto, delle adozioni burocraticamente agevoli alle coppie omogenitoriali e finanche i matrimoni omosessuali.

A proposito di opposizione, parliamo di Simone Pillon, senatore leghista noto per i complotti sull’ideologia gender e le lobby gay che vogliono insegnare la stregoneria e la teoria gender nelle scuole. Ovviamente non poteva non essere contro questa legge, infatti in un’intervista rilasciata su Vanity Fair affermò che la legge era fatta per «imporre un pensiero unico e punire chi la pensa diversamente», insomma, il primo passo di un «gigantesco esperimento di ingegneria sociale» mirato a istituzionalizzare la cultura gender (dato che si parla di «indottrinamento gender nelle scuole») e «abolire la famiglia naturale e l’identità sessuale». Ora, tali posizioni sono più che infondate perché innanzitutto il disegno salvaguarda la libertà d'espressione, infatti riporta che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.” (Art. 4), inoltre il disegno si pone a tutela di tutti (e sottolineiamo tutti) gli orientamenti sessuali, i sessi, i generi e le identità di genere non privilegiandone alcuno ma mettendoli tutti sullo stesso piano innanzi alla legge. Non commentiamo poi i complotti sulla “cultura gender” e sull’abolizione della cosiddetta “famiglia naturale”, che sono stati smentiti da anni. Di fatto attualmente, a causa dell’ostacolo alla calendarizzazione della discussione in Senato da parte dell'onorevole leghista Andrea Ostellari, il quale ha definito di non prioritaria importanza questo provvedimento che, come ha affermato recentemente Enrico Letta in un'intervista, "porterebbe il nostro paese nel futuro", una persona che commette violenza verbale o fisica per motivi etnico-religiosi, razziali o nazionali rischia una reclusione da 6 mesi a 4 anni, invece se il movente fosse stato l’orientamento sessuale, ad esempio, avrebbe ricevuto una denuncia di aggressione forse con l’aggravante dei “futili motivi”. Con il Ddl si riconoscerebbe la specificità del reato che possiede una matrice ben precisa che non è per nulla isolata o sporadica: numerosissimi sono i casi di aggressioni per genere, sesso, identità o orientamento e ancor di più i casi di violenza verbale o psicologica, praticamente all’ordine del giorno, basti pensare ai fatti della metro di Roma risalenti al 26 febbraio o le vicende accadute a Malika, cacciata di casa perché lesbica. Questi eventi ed innumerevoli altri esprimono la necessità di questo tipo di provvedimenti per un Paese in cui l'integrazione fatica ancora ad emergere e ad affermarsi sia nel tessuto sociale che nella lenta ed influenzabile macchina burocratico-legislativa.

(S)COPRIAMO IL VELO

Giulia Sofia Caramiello
IA

Il 30 marzo è stata votata al Parlamento francese una proposta di legge che vede il divieto alle minori di diciotto anni di indossare l’hijab. È passata con 177 voti favoreli, maggiormente della destra repubblicana, che da anni spingeva per l'approvazione. Da subito il disegno di legge, non ancora entrato in vigore, ha sollevato malumori negli ambienti di fede islamica, che vedono il divieto come una limitazione alle proprie libertà personali. La proposta si colloca in un contesto francese dove il secolarismo sta avendo la maggiore. Il Paese difatti non è nuovo a iniziative del genere: già nel 1989 erano partiti i primi movimenti anti-hijab e nel 2004 si era giunti al divieto per le studentesse islamiche, ma anche per gli ebrei e i cristiani, di “ostentare” simboli religiosi all’interno degli edifici pubblici. Il divieto era stato esteso anche alle madri, che non possono indossare l’hijab all’interno di contesti scolastici. Nel 2011, invece, è stato vietato l’utilizzo del “velo integrale”, che copre l'intero volto. La questione pertanto non è nuova, di certo però questa nuova proposta ha diviso la platea francese, tra chi inneggia a un fondamentale passo in avanti per l’uguaglianza sociale e chi la considera una limitazione dei propri diritti. Per molti politici della destra e non, queste misure sono fondamentali per evitare la formazione delle cosiddette “culture parallele”, ovvero le culture che sviluppano ideali diversi rispetto a quelli dello Stato. Questo sentimento di secolarismo non è solo proprio della Francia, ma è comune in molti paesi europei, dove il divieto è esteso da anni. Molte femministe francesi dichiarano che questa scelta sia fondamentale per l’equiparazione dei diritti tra l’uomo e la donna, in quanto il “velo” per secoli avrebbe rappresentato la sottomissione della donna all’uomo, che l’imposizione del velo alle ragazze sia un atto di “violenza”, e che la scelta sia un diktat familiare.

Molti di questi discorsi però si basano in genere su un forte pressapochismo e una mancata conoscenza delle motivazioni culturali, non solo religiose, che si celano dietro all’utilizzo dell’hijab o in generale del velo: indossare l'hijab per molte è, nella maggior parte dei casi, frutto di proprie scelte personali, e il velo è visto non solo come simbolo di fede, ma anche emblema della propria identità culturale. Se si vogliono davvero considerare i casi dove le giovani ragazze sono soggette al volere della famiglia, non si deve agire sul piano formale, ma incentivare lo sviluppo della coscienza tra le persone e avere un’attenta cura per il sociale. Reputare che ogni giovane ragazza sia soggetto di queste imposizioni è semplicistico e scade nella propaganda. Molto spesso infatti, le giovani iniziano a indossare il velo con l’inizio della pubertà e pertanto, considerare che la loro scelta sia completamente passiva, è errato. Spostare poi l’attenzione pubblica sull’hijab come mezzo di soggiogazione e reificazione della donna, non fa altro che deteriorare l’immagine della comunità islamica all’interno di una nazione. Soprattutto se si pensa di agire come paladini, quando ancora sussistono all’interno della società occidentale mercificazioni del corpo femminile ancor peggiori, grazie alla subdola “imposizione” di ideali irrealistici e tossici. Molte donne scelgono di non indossare il velo e altrettante decidono di indossarlo. Imporre una o l’altra decisione è la vera limitazione delle libertà di una persona. La ricerca del secolarismo in una comunità tramite la cancellazione delle differenze crea di certo omogeneità pratica, ma reprime la diversità e crea appiattimento culturale. L’obiettivo della repubblica non dovrebbe esser questo, ma il raggiungimento di una coesione tramite una giusta armonia di differenze, siano esse culturali e religiose, non scegliere la via più semplicistica, che altro non farà che peggiorare la situazione.

VASI COMUNICANTI O VASI CANOPI?

Vincenzo Sarracino
ID

Da quando è stato fondato nel 2007, il PD è stato probabilmente l’unico grande partito che ha ricoperto incarichi di governo in cui è stato possibile intravedere un barlume di sinistra, sempre più flebile, ma tuttavia ancora presente. Il partito ormai si presenta completamente slegato dai valori del PCI di cui si dice erede, troppo lontano da quegli ideali che afferma di voler rappresentare, troppo lontano dai giovani che dice di voler tutelare, troppo poco attento alla situazione femminile, troppo minacciato da protagonismi e correnti interne diverse.

I cambiamenti che devono avvenire dall’interno sono tanti, troppi per il segretario Nicola Zingaretti, che dalla sua nomina ha fatto poco e niente per la sinistra, se non essere fonte di meme esilaranti come la sua controparte di destra Salvini. Il 4 marzo Zingaretti annuncia le sue dimissioni, accusando il partito, attualmente al governo con i suoi nemici giurati Lega e Italia Viva, di “pensare più alle poltrone che al bene del Paese”. 

Nuova crisi di partito, nuove manie di protagonismo, nuove correnti che si contrastano, nuovi rischi di scissione. Vengono fatti nomi di moltissimi possibili segretari, tra cui il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini o l’ex ministro della difesa Roberta Pinotti, ma solo uno dei nomi riesce a spiccare: l’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, lo stesso che Renzi aveva silurato con la celebre frase “Enrico stai sereno” e che adesso si pone come padre nobile a cui non si può dire no.

E infatti nessuno gli ha detto di no. Ma andiamo con ordine.

L’Assemblea Nazionale del PD si è aperta domenica 14 marzo alle 9:30, con un discorso del Presidente Valentina Cuppi, che, non potendo fare altro, pronuncia un elogio solenne all’ex segretario Zingaretti e ai principi ormai lontani del partito (per cui sembra quasi un elogio funebre), concludendo: “Questo è il vero partito di sinistra, alternativo alle destre, che vogliamo essere”.

Si presenta allora come unico candidato Enrico Letta, che espone le sue soluzioni per ripartire e i suoi principi ideologici su cui fondare il nuovo PD: incomincia notando che senza coordinamento nel gestire l’emergenza si perdono risorse e vite umane, tanto che si potrebbe definire un “indice del costo del non coordinamento” per quantizzare denaro e vite perse; procede con un monito sulla situazione femminile, sottolineando che, ancora una volta, la scelta di un segretario è caduta su di un uomo; continua con un elogio all’Italia multilaterale che si occupa degli altri, ricordando Luca Attanasio, l’ambasciatore ucciso in Congo; illustra una sua metafora, secondo la quale ognuno ha un’anima e un cacciavite, ma se non impara a usare quest’ultimo l’uomo non è niente (ciò per dire che i valori vanno concretizzati); si dichiara inoltre “progressista nei valori, riformista nel metodo e radicale nei comportamenti”;

asserisce poi che è impensabile per il PD parlare di giovani e cercare di coinvolgerli se non li si lascia parlare (propone, perciò, di estendere il voto ai sedicenni); invoca alcuni diritti che fanno storcere il naso alle destre: parità di genere, diritti LGBT, ius soli e ius culturae; chiede la liberazione di Patrick Zaki e maggiore attenzione nella gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund; infine, lancia un suo progetto di agorà democratiche, con cui provare a capire come vivono i partiti al tempo di internet.

A fine Assemblea Valentina Cuppi dichiara l’elezione quasi all’unanimità (solo due voti sono contrari): Enrico Letta diventa ufficialmente segretario e si dice pronto a cambiare il partito dall’interno. Ma i suoi compagni vorranno cambiare?

Letta ha prestato la voce ad un personaggio presentato a Propaganda Live nel 2020, il “Vaso degli Esteri”, riproduzione di un vaso presente sulla scrivania di Luigi di Maio. Ospite nuovamente in trasmissione venerdì 12 marzo, due giorni prima dell’Assemblea, ha dichiarato che smetterà di essere il Vaso degli Esteri per diventare il “Vaso del PD”; il conduttore Diego Bianchi gli ha allora chiesto: “Ma sarai un vaso di coccio o un vaso di ferro?”  

È questa la vera domanda: Enrico Letta sarà capace di tenere una leadership forte e far diventare il PD una vera alternativa alle destre? Oppure si farà di nuovo pugnalare alle spalle da chi avrà interesse a farlo?

IL CASO NAVALNY

Flavio Centofanti
IB

Lo scorso 20 agosto Alexei Navalny, oppositore politico russo, è stato avvelenato con un agente nervino appartenente alla famiglia del Novičok.

Navalny si trovava su un aereo per Mosca quando, a causa di un improvviso malessere e della perdita dei sensi, è stato effettuato un atterraggio d'emergenza all'aeroporto di Omsk. Due giorni dopo è stato trasportato all'ospedale Charité di Berlino, dopo varie insistenze da parte della famiglia e della squadra di Navalny, dato che i medici russi ritenevano le condizioni dell'oppositore troppo instabili per poter essere trasposto in un altro ospedale.

Tutt’ora non si sa con certezza se questo avvelenamento sia stato un ordine dal Cremlino: molti ne hanno il sospetto in quanto gli agenti nervini della famiglia Novičok, sviluppati dall'Unione Sovietica, hanno una produzione e utilizzo molto complessi, ragion per cui si ritiene possibile la mano del governo russo.

Lo stesso Navalny ne è convinto, ritenendo di essere stato fortunato a sopravvivere all'avvelenamento. Inoltre, ha anche registrato una sua telefonata con un agente dell'FSB (il servizio di sicurezza federale russo), considerato un probabile responsabile dell'avvelenamento, portandolo a confessare il tentato omicidio; altri ritengono che il governo russo avrebbe ucciso direttamente l'oppositore politico, se avesse voluto, cosa confermata dallo stesso Putin durante un'intervista.

Le domande sono ancora tante: un agente russo di un così alto grado può mai essere tanto imprudente da confessare un tentato omicidio? Il governo ha evitato di proposito la morte di Navalny per evitare di creare un martire agli occhi dei cittadini? Il governo russo non ha rispettato gli accordi internazionali riguardo le armi chimiche? O, qualora non fosse implicato direttamente, ha permesso queste venissero prodotte ed usate in territorio russo?

Di ritorno dalla Germania, il 17 gennaio di quest'anno, appena atterrato all'aeroporto di Mosca, Navalny è stato arrestato dalle autorità russe. L'accusa era la violazione all'obbligo di firma cui era sottoposto due volte al mese, causa arresti domiciliari che scontava dal 2014, a cui ovviamente si era sottratto poiché ricoverato in Germania. Dopo un primo processo è stato condannato a 30 giorni di reclusione in attesa di un secondo processo, avvenuto il 2 febbraio, nel quale si è deciso di modificare il resto della pena, da arresti domiciliari (più di due anni e mezzo) in detenzione.

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In Russia ci sono state diverse proteste per il suo rilascio: alcuni manifestanti si sono riuniti il 17 gennaio presso l'aeroporto di Vnukovo, in cui sarebbe dovuto atterrare. In seguito sono state organizzate altre quattro proteste, il 23 gennaio, il 31 gennaio, il 2 febbraio (data del processo di Navalny) e l'ultima il 14 febbraio.

La reazione da parte dei leader europei e internazionali è stata negativa, sia per l'avvelenamento di Navalny, sia per l'arresto dell'oppositore politico.

Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha incontrato, il 5 febbraio, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov per richiedere il rilascio di Navalny, il dialogo tra i due non ha portato ai risultati sperati. Inoltre, lo stesso giorno, sono stati espulsi dal paese tre diplomatici europei, tedesco, polacco e svedese, per aver partecipato alle proteste del 23 gennaio.

L’Unione Europea è intervenuta nella questione imponendo una sanzione per i mandanti e gli esecutori della detenzione di Navalny, tra cui spiccano i nomi di alcuni dei più alti funzionari russi.

In caso Navalny non dovesse essere rilasciato è possibile uno scontro diplomatico tra la Russia e l’Unione Europea, con il rischio che quest’ultima blocchi i rapporti commerciali con il paese sovietico, situazione che, ovviamente, avrebbe un impatto rilevante su tutta l’economia europea.

UNA VOCE DAL MYANMAR

Mariateresa Cesare
IIA

Era gennaio del 2020 quando lasciavo il Myanmar, il colpo di stato era ben lontano, ma forse non del tutto imprevedibile. Ricordo bene, infatti, come la nostra guida Birmana evitasse qualunque domanda di matrice politica le ponessimo in pubblico, guardandosi intorno e facendo segno “dopo” con la mano, non esattamente lo specchio di un paese stabile e libero dalla dittatura militare.

Sentimento comune e palpabile nelle strade era, però, l’amore per la leader della resistenza Aung San Suu Kyi, le cui foto campeggiavano in ogni locale. Dopo 25 anni di lotta, grazie alle elezioni del 2015, Suu Kyi aveva finalmente trionfato sui militari; la vittoria non era stata totale però; la “signora”, come la chiamano i suoi sostenitori, si era trovata a dover convivere con i militari che, nella Costituzione del 2008, avevano inserito una clausola ad personam, volta ad escludere Suu Kyi dalla presidenza del Myanmar, riservandosi il 25% dei seggi parlamentari con potere di veto su ogni riforma della Carta.

Tale situazione, già non del tutto rosea, è precipitata lo scorso 1° febbraio, quando i militari hanno preso il potere arrestando San Suu Kyi e i vertici del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD). La tempistica dell’evento non è casuale; il golpe è avvenuto nel giorno in cui il parlamento del Myanmar si sarebbe dovuto riunire per la prima volta dopo le elezioni tenutesi lo scorso novembre. Elezioni in cui la Lega Nazionale per la Democrazia aveva ottenuto 368 seggi su 434, mentre al Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione, sostenuto dai militari, erano andati solo 24 seggi. Dopo essersi giocati la carta dei “brogli elettorali inesistenti”, ormai ben nota all’occidente, i militari hanno agito, apparentemente supportati dalla costituzione nazionale. L'esercito ha agito in nome di due articoli: il 417 e il 418, che consentono il passaggio di tutti i poteri nelle mani del comandante dei servizi di difesa nel caso in cui il presidente dichiari uno “stato di emergenza”.

Il colpo di stato ha gettato nell’ombra un popolo intero, i sorrisi che ricordavo si sono trasformati in grida di protesta, i villaggi che mi hanno accolto un anno fa sono ora barricati, il popolo spensierato che ho conosciuto ora si riversa nelle strade pretendendo la libertà. 

I miei timori per la sorte del Myanmar sono confermati da Cho Cho,  una guida del posto che ci racconta il paese dall’interno.

“Ora in Myanmar siamo nel buio, dal primo febbraio lottiamo ogni giorno facendo la rivoluzione contro la dittatura dei militari” così descrive la situazione “abbiamo votato l’otto novembre, il partito NLD ha vinto con l’83%, l’esercito ha accusato la signora Aung San Suu Kyi di aver imbrogliato. Volevano rifare le elezioni, la NLD si è rifiutata, così hanno arrestato i nostri capi. Il nostro popolo vuole ritrovare la luce, vogliamo che il nostro voto venga rispettato, soffriamo già abbastanza per la pandemia.

Promettono di rifare le elezioni fra un anno, noi non ci fidiamo dei militari, il nostro paese non dimentica: c’è stato un colpo di stato nel 1962, c’è stato un colpo di stato nel 1988, questa è la terza volta, non ne possiamo più. Dobbiamo risolvere questa situazione, non possiamo permettere che una nuova generazione soffra come abbiamo sofferto noi.”

Dalle sue parole, cariche di rabbia e frustrazione, si comprende come il popolo birmano sia ormai stanco di sottostare al pugno di ferro dei militari e lo sta dimostrando con le proteste che infiammano le strade del paese ormai da settimane. Le manifestazioni sono arrivate anche sui social, con la campagna “Bang Your Pot”  a cui è possibile partecipare da ogni angolo del mondo: basta battere su una pentola, un antico rito contro il maligno che è stato trasformato in atto di ribellione e di protesta contro il colpo di stato.

Le manifestazioni restano pacifiche, nonostante gli sforzi del governo per creare conflitti. 

“stanno liberando i criminali dalle prigioni, li vestono da monaci e li mandano nei cortei a creare scompiglio.” racconta Cho Cho “non dobbiamo fare il loro gioco, noi manifestiamo pacificamente, non siamo noi a creare scontri” 

Testimonianze come questa sono di fondamentale importanza, nella scorsa settimana i militari hanno ordinato un blackout di internet per nascondere gli orrori da loro commessi durante le proteste, per i cittadini è sempre più difficile far sentire la propria voce, molti sono dovuti ricorrere all’uso di reti VPN. 

La crisi del Myanmar non è, però, solo umanitaria; la situazione economica del paese, già traballante, va incontro a un netto peggioramento. Alle sanzioni di Usa e Ue che condannano la dittatura si aggiungono le numerose aziende orientali che hanno già interrotto la produzione nel paese, Suzuki Motor, fra le altre, ha fermato due fabbriche. 

In questo clima risulta straziante l’invocazione d’aiuto che arriva dal paese “noi non dormiamo più la notte, non abbiamo leggi né regole. Il popolo sta aiutando il popolo, non abbiano nessun altro, niente polizia, niente stato, loro creano solo problemi”.

CRISI DI GOVERNO: EPILOGO

Giulia Sofia Caramiello  Fabrizio Gaeta

IA

Sveva Russo

ID

Nonostante Conte avesse ottenuto la fiducia al governo, il suo tentativo di allargare la maggioranza e avere i numeri necessari per poter rimanere al potere ha avuto scarso successo, tanto che lo stesso primo ministro il 26 gennaio ha dato le dimissioni. La crisi quindi doveva esser risolta dal Presidente della Repubblica Mattarella, che ha affidato un mandato esplorativo al presidente della camera Fico per trovare una maggioranza per un nuovo governo. Nemmeno questo tentativo è stato fruttuoso e Mattarella ha deciso di convocare al Quirinale l’economista di fama mondiale ed ex presidente della BCE Mario Draghi per poter affidargli l’incarico. Draghi ha accettato con riserva il 4 febbraio e sono iniziati dunque il giorno dopo i giri di consultazioni. Da subito, l’economista ha riscosso forte successo in molte fazioni politiche, sia nell’ex-opposizione, in particolare Lega e Forza Italia, sia tra i componenti del precedente governo. Gli unici a opporsi a questo nuovo governo sono stati Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, che sono ancora contrari, e M5S, che, a causa di contrasti d’opinione, decide di indire un plebiscito sulla piattaforma Rousseau l’11 febbraio, affinché tutti gli iscritti al partito possano esprimere il loro favore o sfavore al nuovo governo. Vince il sì, con il 59% dei favorevoli e Draghi, forte di questo nuovo consenso, l’indomani scioglie la riserva e presenta la lista dei 23 ministri, che ha suscitato alcune asprezze: si era parlato di governo d’alto profilo e tecnico, ma questa aspettativa non è stata rispettata appieno. Inoltre nel PD causa scalpore la scarsa componente femminile, solo 8 su 23, e la scarsa rappresentanza del sud, circa il 17%. Nonostante ciò, il 13 febbraio Draghi giura come presidente e si riunisce il primo Consiglio dei Ministri. Nei due giorni successivi, si tiene il voto per la fiducia al Senato, 262 favorevoli su 304, e alla camera, 535 pro su 596. La vittoria è schiacciante, a opporsi rimangono solo FdL, Liberi e Uguali e alcuni membri del M5S. Ora non resta altro che aspettare di vedere come si evolverà la faccenda.

Le parole del Senatore Renzi nel post su Facebook in cui afferma che dal discorso del Presidente Draghi al Senato si capisca quanto sia valsa la pena di aprire la crisi di Governo, sembrano atte a prendersi gioco di chi le legge. Ricordano quell’ironia un po’ goffa di chi sa di aver sbagliato o di essere stato incredibilmente fortunato e vuole fare ammenda senza però ammettere apertamente le proprie colpe.

Analizzando la situazione, si può affermare che a un mese dall’apertura della crisi l’unico effetto tangibile provocato da l’ammutinamento renziano sia quello di aver posto al comando un individuo di indiscutibile valore professionale e istituzionale, che ha fatto politica europea con la propria guida alla Bce. La nomina del nuovo Presidente del Consiglio appare innanzitutto come un elemento di garanzia di fronte ai dubbi dell’UE sul rispetto dei termini e delle direttive del Recovery Fund da parte dell’Italia. A Bruxelles nessuno dubita della capacità di Draghi di effettuare profonde riforme strutturali che possano garantire al paese prima una ripresa e poi una crescita economica. Invero, godere di una solida fiducia internazionale è una premessa indispensabile per affrontare la crisi. La crisi “chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo” e, come Draghi ha tenuto a sottolineare, i membri del nuovo esecutivo, tecnici e politici, sono tutti cittadini italiani, ugualmente determinati a portare a termine il loro compito. Oltre, il buio.

Con la convocazione di Draghi abbiamo assistito a una sfilata di politici, appartenenti a partiti di orientamento opposto, che hanno portato consenso unanime a un uomo venuto da fuori, a un uomo che non è un parlamentare e che non appartiene a nessun partito. La domanda sorge spontanea: la sua nomina rappresenta il fallimento della politica parlamentare? È forse sinonimo dell’abdicazione di quest’ultima in favore della tecnocrazia? Senza dubbio la politica, perché possa essere definita tale, deve legittimare se stessa ogni giorno, in termini di efficacia ed efficienza, per non deludere la fiducia del popolo: ed è evidente come, in queste circostanze, i partiti non ne abbiano dato prova; non si può ignorare la totale inadeguatezza di una politica che ha necessità di ricorrere a una figura salvifica che possa, col suo peso personale, traghettare in acque più placide un vascello con lo scafo bucato e normalmente in mano a timonieri sconsiderati.

Considerando la crisi in sé e come è stata scatenata, la bloccata stesura del Recovery Plan già giunto in fase avanzata (e per la quale l’ex Ministro del MEF Roberto Gualtieri avrebbe ricevuto una lettera di approvazione dalla Commissione Europea) , l’assegnazione dei Ministeri indubbiamente rispondente a un progetto riformista ed europeista, ha sollevato dei dubbi sulla reale necessità di restituire peso ad una compagine politica come Forza Italia, in parabola discendente nei sondaggi.

Ma tant’è; la pandemia, la campagna vaccinale e la stesura del Recovery plan richiedono un governo nella pienezza delle sue funzioni, esigono un esecutivo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze. Di certo, però, il fallimento della politica parlamentare non si deve tradurre nel fallimento della democrazia parlamentare: i partiti devono continuare a collaborare e a far parte dell’esecutivo. E questo Draghi lo sa bene. Il mosaico di ministri da lui scelti ha una chiara natura: da una parte i “tecnici” designati in base alla competenza, alla stima personale e a una precisa sintonia; dall’altra i leader politici, che sarebbe stato un errore mortificare. Il nuovo Presidente incaricato ascolta tutti, il che non è un mero atto formale, ma una modalità di approccio, e poi decide da solo circa le priorità della sua agenda.

Eppure c’è ancora chi diffida dal “tecnico”, dal “potente banchiere” che ha ricoperto le cariche più prestigiose: basta guardare al passato per scardinare i pregiudizi. Gli studi al MIT, i successi negli USA, la direzione della Banca d’Italia, la Bce e il celebre “whatever it takes” che salvò l’euro nel 2012, non ne fanno un burocrate da additare come nemico del popolo, ma una figura in grado di rappresentare l’Italia con dignità e competenza. Inoltre, sebbene il governo proposto sia istituzionale, sarebbe un errore considerare l’ex presidente della Bce come un tecnocrate: egli non può neutralizzare la propria storia e la propria identità, né il suo profilo europeista che, in fin dei conti, è ciò che lo ha portato ad ottenere l’incarico. 

Senza dubbio la formazione culturale del nuovo Presidente, la sua crescita lavorativa, la sua conoscenza del codice delle istituzioni e le posizioni apicali da lui occupate non ne fanno un Super Mario in grado di sconfiggere le falle del sistema senza margini di errore, ma ne fanno certamente una figura autorevole e qualificata, con tutte le carte in regola per guidare il paese alla risalita, non senza errori.

Infine, prescinde dalla qualità dell’individuo e anche da quella, più scarsa, dell’esecutivo, una valutazione sul generale clima di perenne isteria che interessa il Paese. Si cestina senza drammi un Presidente del Consiglio, tra l’altro tra i più apprezzati a livello popolare, in nome di una speranza di cambiamento immediato che ancora una volta non transita per idee e progetti ma per la fiducia (comprensibile e probabilmente anche ben riposta) in un singolo. Al tavolo apparecchiato da questo bipolarismo dettato dalla disperazione si siedono con allegria le forze politiche, dimentiche delle promesse del passato e delle condizioni un tempo giudicate inderogabili. 

Ma noi, al di là di tutto, abbiamo fiducia nel nuovo Presidente. E Staremo a vedere.

CHI SONO I NUOVI MINISTRI?

              Chiara Civita    Mariachiara Mallardo

IV A

La formazione di un governo non è semplice e immediata, bensì è il frutto di un processo complesso che è articolato in 3 fasi: consultazione, incarico e nomina. 

Prima di assumere le loro funzioni, il Presidente del Consiglio e i ministri devono prestare giuramento, quindi ottenere la fiducia del Parlamento.

Il nuovo governo diretto da Mario Draghi ha giurato il 13 febbraio presso la sede del Quirinale.  Neopresidente del Consiglio dei ministri, Draghi si è laureato con 110 e lode presso l’Università “La Sapienza” di Roma e si è specializzato al MIT di Boston e dal 2011 al 2019 ha avuto l’incarico di dirigere la Banca Centrale Europea. È stato alto funzionario del Ministero del tesoro, tra i dirigenti del Goldman Sachs e presidente della BCE.

Il governo Draghi è di tipo tecnico-politico, composto da 23 ministri di cui 15 sono politici e 8 tecnici. Un governo tecnico è composto da ministri che non sono individuati tra i partiti del Parlamento, ma tra esperti in materie sociologiche, giudiziarie, economiche e tecno-scientifiche.

Ad un governo tecnico si affianca un governo politico, formato da rappresentanti dei partiti politici e da parlamentari, così chiamato perché è costituito da persone già indirizzate nel mondo della politica.

Nel nuovo governo i ministri tecnici si specializzano in:

- Economia (Daniele Franco);

-Transizione ecologica e ambiente (Roberto Cingolani);

-Infrastrutture e trasporti (Vittorio Colao);

-Istruzione (Patrizio Bianchi);

-Università e ricerca (Cristina Messa);

-Giustizia (Marta Cartabia);

-Interno (Luciana Lamorgese). 

Il governo Draghi è completato da quindici ministri politici. Tra questi vi sono:

-Federico D’Incà (Rapporti con il Parlamento);

-Renato Brunetta (Pubblica Amministrazione);

-Mariastella Gelmini (Affari regionali e autonomie);

-Mara Carfagna (Sud e coesione territoriale);

-Fabiana Dadone (Politiche giovanili);

-Elena Bonetti (Pari opportunità e famiglia); 

-Erika Stefani (Disabilità);

-Massimo Garavaglia (Turismo); 

-Luigi Di Maio (Affari esteri e cooperazione internazionale);

-Lorenzo Guerini (Difesa);

-Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico);

-Stefano Patuanelli (Politiche agricole, alimentari e forestali);

-Andrea Orlando (Lavoro e politiche sociali);

-Dario Franceschini (Cultura);

-Roberto Speranza (Salute).  

Una delle caratteristiche principali che si denota dall’analisi della formazione del nuovo governo è la prevalenza di ministri provenienti dal Nord Italia (il 75%) rispetto a quelli del Sud. I ministri provenienti dal Sud Italia sono: Lamorgese e Speranza (lucani); Carfagna e Di Maio (campani). 

Nessun ministro proviene dalla Sicilia o dalla Sardegna.

I ministri del governo Conte-Bis confermati nel governo Draghi sono 9. 

L’età media dei membri del nuovo governo si è alzata a 54 anni, a fronte dei 47/48 dei precedenti esecutivi.

Non si può non notare che le donne che ricoprono la carica di ministro rappresentano solo un terzo: sono soltanto otto su ventitré ministri che compongono il nuovo governo; il Partito Democratico non ha candidato alcuna donna.

Per concludere, numerosi sono gli obiettivi che il nuovo governo spera di raggiungere. 

Uno degli obiettivi che ha maggiore rilevanza in questo periodo difficile è il miglioramento del piano vaccinale per raggiungere l’immunità di gregge e per far fronte alla pandemia.

Il nuovo governo ipotizza di prolungare il calendario scolastico fino ai mesi estivi e di anticipare l’apertura delle scuole a inizio settembre.

Propone una ripartenza e il rilancio dell’economia, in particolare del turismo e della cultura.

Tra i settori su cui ha scelto di soffermare la propria attenzione spiccano quelli della sostenibilità ambientale e dell’innovazione tecnologica, che potrebbero fornire opportunità lavorative.

1921-2021

CENT'ANNI DI SCISSIONI

Ferorelli Francesco II D

Vincenzo Sarracino I D

Cento anni fa nacque, come risultato della prima crisi della sinistra italiana, il Partito Comunista Italiano, in seguito al Congresso di Livorno: da allora, la differenza tra socialismo e comunismo divenne effettiva.

Il dibattito scaturì dalla richiesta dell’Internazionale Comunista di espellere i partiti aderenti alla corrente riformista. Gli schieramenti erano vari, di cui tre maggiori (la concentrazione socialista di Turati, i comunisti unitari di Serratti e i cosiddetti "comunisti puri" di Bordiga) e due minori (i rivoluzionari intransigenti guidati da Lazzari e, in una posizione intermedia, la "circolare" di Marabini e Graziadei, vicini ai comunisti, fedeli alle direttive del Comintern, ma desiderosi di mediare).

Pochi anni prima, in Russia, Lenin aveva guidato la rivoluzione, rovesciando gli zar e instaurando l’Unione Sovietica; l'Italia era colpita duramente dalle tensioni sociali causate dalla prima guerra mondiale e il fascismo cominciava a muovere i primi passi. Il partito socialista italiano e la CGL non furono capaci di opporsi all'egemonia della borghesia, non sfruttando lo spiraglio di rivoluzione creatosi dopo il biennio rosso, mediando con il governo Giolitti e arrivando all'accordo con gli industriali.

Le mozioni principali erano tre. I massimalisti proponevano di mantenere l'identità di partito per raggiungere il potere politico, sostenendo la Terza Internazionale. I concentrazionisti, pur essendo in minoranza, controllavano il gruppo parlamentare e la CGL, guidati da Baldesi e D'Aragona, affermavano la necessità di mantenere unito il partito, ripudiando una rivoluzione violenta e pensando che la dittatura del proletariato non fosse necessaria. L'ala comunista, con il documento sottoscritto da Gramsci, Bordiga, Misiano e Terraccini, assunse una posizione radicale: abbracciando le direttive della Terza Internazionale, proponeva di cambiare il nome in "Partito Comunista d'Italia" ed espellere la corrente riformista e quanti non avessero accettato le condizioni del Comintern. Il programma sottolineava che il partito era un organo indispensabile per la rivoluzione, che una lotta violenta e una successiva dittatura del proletariato erano l'unica via per abbattere il sistema borghese e che era necessaria la gestione collettiva dei mezzi di produzione e di distribuzione, fino all'eliminazione dello Stato politico.

Al termine delle votazioni vinse la mozione unitaria portando la fazione comunista alla scissione: in un vecchio teatro poco vicino fu fondato il 21 gennaio 1921 il Partito Comunista Italiano.

Ma dopo tante crisi, è ancora possibile distinguere tra i partiti del panorama politico italiano la Sinistra dalla Destra? Che cosa sono oggi Sinistra e Destra, se non due concetti ampissimi, che vanno oltre la politica, talvolta ridotti all’utilizzo di termini come comunista e fascista?

Parafrasando Gaber, sembrerebbe che essere di Destra sia ritenere di poter essere liberi e felici, essere di Sinistra sia ritenere di poterlo essere solo se lo sono anche gli altri. Ma i partiti che si professano “di Sinistra” seguono ancora questo ragionamento? Mentre questi ultimi si allontanano dall’ideale espresso da Gaber, la Destra si avvicina a ideali ultranazionalisti degni di essere definiti fascisti. Questa Destra, di pancia, xenofoba ed antieuropeista di Salvini e Meloni, diventa ogni giorno più solida, probabilmente, anche perché a differenza di molte forze della Sinistra presentano dei leader forti, in cui gli elettori si possono riconoscere.

La Sinistra, invece, è continuamente minacciata dalle manie di protagonismo dei suoi esponenti, ormai numerosissimi: basti pensare agli innumerevoli leader che ne popolano il variegato mondo, da Zingaretti a Renzi, da Bersani a Calenda, per citarne alcuni, per non parlare dei tanti movimenti o partiti il cui programma, spesso, consiste semplicemente nell’ “essere contro”.

Pensiamo ad Italia Viva di Matteo Renzi, sulla ribalta politica negli ultimi giorni: esso nasce nel 2019, quando il politico toscano, già reduce dalla sconfitta del Referendum del 4 dicembre 2016, perde anche le primarie del PD e quindi la leadership del partito.

Ma questo è solo l’ultimo capitolo di una lunga saga di spaccamenti, frantumazioni e scissioni, a partire dalla nascita del Partito Comunista nel ‘21: negli anni più recenti, dal Partito Democratico di Sinistra (erede del PCI dopo la svolta della Bolognina ad opera di Achille Occhetto) si stacca Rifondazione Comunista; dal Partito Democratico, nato dalle ceneri del PDS, nascono Liberi e Uguali, Potere al Popolo, Sinistra Italiana e Possibile, per citare alcuni partiti o movimenti, seguiti da Italia Viva.

Come diceva Aristotele nella Metafisica: “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”. Questa continua “suddivisione in parti” potrebbe aver fatto perdere di vista l’importanza e la forza unitaria del “tutto”? La Sinistra è per sempre destinata a dividersi e a scindersi? Oppure verrà un giorno un leader per tutti?

CRISI DI GOVERNO O CRISI DI NERVI?

25/01/21
Sveva Russo ID
 Fabrizio Gaeta                                         
                                     IA                                                
Giulia Sofia Caramiello 

Gli ultimi mesi si sono rivelati come particolarmente intensi e difficili da un punto di vista sia sociale che economico a causa dalla crisi scatenata da Sars-COVID19. Per questo motivo, l’Italia ha la possibilità di usufruire dei supporti finanziari del Recovery Fund, che dovrà gestire e razionare tra i settori in difficoltà. Il piano proposto dal governo per la gestione dei fondi era stato criticato più volte dall'opposizione e negli ultimi tempi dal partito di governo Italia Viva del senatore Renzi, che, nonostante il rimpasto proposto dal presidente Conte e gli sforzi per conciliare le idee tra le parti, era rimasto irremovibile nelle sue convinzioni e spronava il governo a usufruire anche del Meccanismo europeo di stabilità, con insistenza che però non ha portato a nulla di fatto. Visti i risultati non soddisfacenti, due ministre del partito, Bonetti e Bellanova, si sono dimesse, per dimostrare il loro dissenso al governo, giudicato non capace di far fronte alla crisi. Ma bisogna tenere a mente che nonostante il poco gradimento che riscuote tra gli elettori (intorno al 3%), Italia Viva faceva parte della maggioranza e con la dimissione delle due ministre ha esposto il governo Conte al rischio di non avere i numeri per continuare a essere al potere. Nonostante l'assurdità dell'azione quindi, il governo ha dovuto chiedere la fiducia al senato e alla camera, vincendo, ma con risultati risicati. Lo stesso M5S, per ottenere voti al senato e alla camera, ha dovuto ripescare alcuni ex membri del partito o cercare consensi di Italia Viva. Si è dovuto dunque ricorrere a una sorta di compravendita elettorale, come successo col senatore Mastella, che si era dichiarato pronto a votare per il governo in cambio di favori politici; la faccenda è poi svanita in un nulla di fatto a causa dello scontro con il leader di Azione Calenda. Nonostante quindi la vittoria, conseguita con metodi di dubbia correttezza, Conte non è ancora fuori pericolo, poiché, tra mercoledì e giovedì, si voterà il rapporto Bonafede: se entro quella data ora il premier non riuscirà a trovare i costruttori pronti a sostituire i seggi di Italia Viva, il governo potrebbe cadere.

Il commento

Con queste parole Jean-Jacques Rousseau sintetizzava il senso del contratto sociale nel trattato omonimo: “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi riceviamo ogni membro come parte indivisibile del tutto.” Ognuno cede una parte della propria libertà naturale per ottenere la sua porzione di diritto ed entra così a far parte del corpo sovrano non più come singolo ma come comunità indivisibile. Di qui il paradosso:

il cittadino è suddito della volontà comune e contemporaneamente è un soggetto privato. Se il corpo sovrano non ha interesse a danneggiarlo, lui potrebbe avere invece interessi e mire in contrasto col bene del corpo sovrano. Capita che il corpo scelto per rappresentare ed applicare universalmente la volontà generale, cioè il governo di un Paese, sia composto nelle sue viscere di individui che rompono il contratto sociale agendo ai danni del corpo sovrano, fornendo una sensazione di completo decadimento degli ideali civili e politici.

La crisi politica innescata dalle dimissioni dei ministri di Italia viva ne è un esempio. Tale rottura comprova ancora una volta la preminenza degli interessi personali su quelli collettivi, riducendosi inevitabilmente alle convenienze dell’uno o dell’altro. Renzi, con un’astensione tattica, smaschera la fragilità del sostegno all’attuale premier e ricerca nuova centralità per il proprio partito; Conte dal canto suo, confonde il proprio ruolo con il bisogno degli italiani e mira alla nascita di un partito personale. Nella situazione in cui si trova l’Italia, economicamente devastata da una pandemia, impegnata nella gestione dei vaccini e nella stesura del Recovery plan, le esigenze nazionali andrebbero anteposte a quelle personali, eppure c’è chi persevera nella difesa di un orizzonte individuale. Con ego e autarchia smisurati, ciascuno mira a fondare o rafforzare il proprio partito, un micro-partito concepito ad personam, che altro non è che il riflesso di se stessi. Ed ecco che la leadership del singolo si sostituisce alla politica: le idee, i valori e i progetti perdono di significato, ci si identifica esclusivamente nel leader del momento. Renzi, in queste circostanze, poteva mettersi al servizio del paese, suggerire delle modifiche alla spesa dei fondi europei, e invece ha voluto rendersi protagonista, guadagnare visibilità, minacciare la crisi e infine provocarla: la critica va usata per migliorare l’efficacia dell’esecutivo, non per indebolirlo e paralizzarlo, causando un vuoto politico.  Ma quali saranno gli effetti di tale rottura? Quali garanzie potrà offrire questa nuova maggioranza in una situazione in cui l’Italia necessita di coesione e sostegno? Ma soprattutto di quale credibilità daremo prova di fronte all’Europa?

Eventi simili si sono già verificati in passato, ma ciò che oggi lascia senza parole, ciò che veramente lascia sconcertati, è la totale irresponsabilità di chi compie un atto del genere: la crisi di governo, comunque la si guardi, è anacronistica perché in contraddizione con il tempo che il paese sta vivendo.

NUOVO ANNO, NUOVO IMPEACHMENT

Mariateresa Cesare IIA
Giulia Pallonetto IIA

Mentre gli italiani si godevano l’ultimo giorno di vacanza, il 6 gennaio a Washington una folla – dalle ambigue rivendicazioni - , scortata dalla polizia, faceva irruzione a Capitol Hill. 

Come da tradizione, in quella data veniva ratificata l’elezione del nuovo presidente degli USA. Sin dall’inizio, però, la vittoria di Joe Biden aveva scaldato gli animi del presidente uscente, Donald Trump, e dei suoi vivaci sostenitori. Questi ultimi, dopo mesi di teorie complottiste, hanno ben pensato di riunirsi e assaltare la sede del governo americano. Tra un selfie con un poliziotto e qualche copricapo vichingo, l’America è finita sull’orlo di una guerra civile e il governo si è rivelato completamente impreparato. Degna di nota è stata la reazione di Trump: egli, infatti, è stato il primo a promuovere la protesta, denominata “March to Save America”, ma, alla vista delle prime degenerazioni, ha subito fatto un passo indietro, allontanandosi da ogni forma di violenza perpetuata dai suoi amati seguaci. Il divertimento dei “manifestanti”, purtroppo, ha avuto breve durata: sono bastate poche ore affinché alcuni di loro fossero arrestati e Capitol Hill venisse sgomberata.  

La notizia ha velocemente fatto il giro del mondo e il ruolo di Trump è subito stato messo in discussione; inizialmente, si è parlato di venticinquesimo emendamento, ovvero l’immediata rimozione del presidente, giudicato inadeguato all’incarico e pericoloso. Infine, la Camera ha votato in favore dell’apertura di un processo che vede Trump seduto al banco degli imputati, con l’accusa di “incitamento all’insurrezione”. Questo sarebbe il secondo impeachment per il quasi ex presidente, il cui futuro ormai è nelle mani di un’ultima decisione del Senato. Si tratta di un episodio unico nella storia degli Stati Uniti, che per la prima volta si trovano ad affrontare un tale folle. 

Insomma, il nuovo anno è iniziato da soli pochi giorni e l'America già si presenta prima nella classifica dei Paesi più ridicoli al mondo: manifestanti che irrompono nella sede del governo come fosse il Mc Donald, armi sventolate all’aria come fossero giocattoli, episodi razzisti a non finire e poliziotti un po' “distratti”. Una situazione surreale oseremmo dire, ma, del resto, è pur sempre l'America.

DEMOCRAZIA IN BIANCO E NERO

Valentina Scarpato
IVE

La polizia ha causato una sola morte e cinquantadue arresti durante questo attacco, rendendo palese agli occhi del mondo l’abissale differenza tra questi provvedimenti e quelli presi nel corso dello scorso anno durante le manifestazioni a sfondo anti-razzista del movimento Black lives matter.

Le suddette manifestazioni, infatti, erano spinte dalla necessità di dar voce al fatto che molti diritti non sempre  vengono riconosciuti alla comunità afroamericana: proteste pacifiche, partite dall’America e che hanno poi fatto il giro del mondo. E in occasione delle manifestazioni del movimento sono state puntate armi da fuoco contro bambini; uomini e donne sono stati uccisi brutalmente di fronte a familiari e amici, senza un briciolo di umanità. La grande maggioranza delle proteste di BLM è stata pacifica ma questo non ha fermato le autorità ad intervenire con durezza. Sei anni fa una donna afroamericana, Miriam Carey, si avvicinò troppo a Capitol Hill con l’auto, è stata raggiunta da venti colpi di fucile, sparati dalla security, nonostante ci fosse a bordo la figlia di un anno. La piccola restò illesa, la madre morì. 

“Se chi ha assaltato il Congresso fosse stato nero -  ha commentato la rappresentante democratica del Missouri, Cori Bush - li avrebbero accolti con proiettili e lacrimogeni”.

Centinaia di manifestanti questa volta sono riusciti a passare lungo l’ala ovest senza trovare l’ostacolo delle barriere, spostate dagli agenti. Nell’ala est hanno avuto il tempo di sfondare le vetrate e entrare dai finestroni. Un video mostra un gruppo di “trumpiani” scortato lungo i corridoi da un poliziotto. In un altro, un agente in assetto antisommossa accompagna una ragazza lungo le scale, attento a non farla cadere.

La conclusione tratta è che la democrazia, che dovrebbe essere il fondamento di ogni società, viene a mancare a causa di ignoranza e paura del “diverso”.

Pochi giorni fa abbiamo assistito ad un maldestro tentativo di colpo di stato avvenuto da parte di un gruppo di manifestanti contro l’elezione del presidente entrante degli Stati Uniti, Joe Biden, avvenuto all'interno del Congresso americano (Capitol Hill), dove i deputati e i senatori americani si trovavano riuniti per certificarne la vittoria. Mentre il dibattito era in corso, i sostenitori di Trump  si sono scontrati violentemente con le forze dell’ordine che difendevano l’edificio, facendone poi irruzione, in modo violento e armati, causando la sospensione della seduta elettorale e l’evacuazione immediata dei presenti. I manifestanti hanno occupato gran parte dell’edificio causando cinque morti. Sono stati effettuati cinquantadue arresti da parte della polizia. Il primo decesso registrato è stato quello di Ashli Babbitt, veterana dell'aeronautica, la cui morte è stata di fatto trasmessa in diretta sui principali social network. Ma a morire non sono stati solo i manifestanti: un agente di polizia, infatti, è morto durante gli scontri. 

Questa “manifestazione”, che può essere definita secondo la polizia una vera e propria azione terroristica,  è sorretta alla base dalla convinzione della falsa e truccata elezione di Biden e dell’illecita sconfitta di Trump, che incita i suoi sostenitori a compiere gesti sovversivi come questo.

Tali incitamenti possono essere, e sono stati, un’arma molto potente, essendo Trump uno degli uomini più potenti del mondo, che esercita una forte influenza su una grande fetta della popolazione statunitense e non solo:  ad esempio, subito raffiora alle menti l’episodio in cui, durante l’emergenza Covid-19, ha incitato  a “curare” o prevenire il virus tramite l’iniezione di igienizzanti o detersivi.  

Le forze dell’ordine americane hanno assunto un atteggiamento frenato nell’utilizzo di armi di fronte ad un tentato colpo di stato, causato solo da uomini bianchi, contro l’elezione di un uomo che ha vinto in modo regolare le elezioni presidenziali. 

GUERRA NEL CAUCASO: LA VITTORIA DEL NEGOZIATORE PUTIN

Vincenzo Sarracino
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System of a Down: questo nome vi dice qualcosa? Se non siete fan del rock e del nu metal di inizio duemila, allora probabilmente no. Ma forse li conoscete per un’altra caratteristica: i membri del gruppo sono, infatti, tutti discendenti di sopravvissuti al genocidio armeno perpetrato dagli ottomani durante la Prima guerra mondiale e si sono sempre distinti per le loro battaglie pacifiste e antifasciste. Scioltisi ormai quindici anni fa, sono ritornati recentemente insieme con un nuovo singolo: Protect the Land/ Genocidial Humanoidz, descritto da loro stessi come un inno per tenere alto il morale delle loro truppe nella guerra del Nagorno-Karabakh.

Ebbene sì, perché lo scorso 27 settembre nel Nagorno-Karabakh, zona che comprende l’Arzerbaigian, l’Armenia e l’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, separatasi dall’Azerbaigian nel ‘91, è scoppiata un’altra guerra, dopo quella consumatasi tra l’88 e il ’94, perché le ferite generate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica non si sono ancora rimarginate.

I contrasti tra le nazioni che facevano parte dell’Unione Sovietica erano rimasti semplicemente congelati dopo la sua dissoluzione, avvenuta nel dicembre del 1991, e si erano tradotti in conflitti diplomatici, dai quali l’Unione ne è uscita divisa. Ma nella zona del Nagorno-Karabakh, quattro anni fa, il clima di ostilità ha portato alla luce vecchi sentimenti per una nuova guerra: l’Azerbaigian ha tentato di riprendersi, fallendo, i territori perduti. Forse è proprio per questo che da Baku, sua capitale, hanno tentato un’offensiva contro l’Armenia, nonostante le fonti azere la incolpassero dell’offesa.

La guerra è terminata dopo un paio di mesi, lasciando un cospicuo numero di vittime. Ma le tensioni restano e il rischio che il conflitto riprenda su una più ampia scala è assai elevato. Tutto dipende dalle due potenze che circondano il Nagorno-Karabakh, Turchia e Russia: se da un lato Erdogan ha sempre appoggiato l’Azerbaigian cercando la via dei negoziati, sperando anche di trarne un profitto, stavolta è stato molto diretto, dichiarando il suo sostegno a Baku e accusando l’Armenia di minacciare la situazione di pace nel Caucaso. D’altro canto Putin riveste il ruolo di negoziatore,  tentando la via pacifica, per lasciare un po’ di tempo a Baku di riprendersi i territori persi.

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Così è stato. In questa mini guerra alcuni territori appartenenti all’Artsakh, tra cui la città simbolo di Şuşa, sono stati riconquistati dall’Azerbaigian e martedì 10 novembre la Russia ha mediato la pace. È stata di Mosca la vera vittoria: Putin è riuscito a ottenere che duemila militari russi, il cui compito sarebbe mantenere la pace, si schierassero nel corridoio di Leçin, unico collegamento sicuro tra Armenia e Artsakh, per un mandato di cinque anni rinnovabile per altri cinque.  

L’influenza russa nel Caucaso si fa sentire, in particolar modo in Armenia, dove sono scoppiate proteste e rivolte il cui scopo è chiedere le dimissioni del primo ministro Pashinyan. La democrazia armena rischia di crollare, come causa dell’atroce vendetta di Putin per la rivoluzione di velluto del 2018, che aveva portato alla nomina di Pashinyan come primo ministro, ostile al presidente russo e al sistema della corruzione da lui costruito.

Putin si è vendicato e ha vinto la guerra. 

L'ETIOPIA

Chiara Civita
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Emergenza umanitaria!

Da anni migliaia di persone scappano dall’Etiopia per sfuggire alle guerre che tormentano il paese africano, causando innumerevoli vittime. Lo scontro che è in atto da circa un mese riguarda principalmente la regione settentrionale del Tigrai, ma questo è soltanto uno dei molteplici conflitti che affliggono il territorio etiope.

Nel 1993, infatti, l’Eritrea ottenne l’indipendenza dall’Etiopia, ma solo dopo una guerra durata trenta anni. Seguì un breve periodo di pace, che, nel 1998, terminò con l’inizio di un nuovo scontro.

Nel 2019, all’attuale primo ministro del governo etiope Abiy Ahmed Ali, è stato riconosciuto il premio Nobel per la pace per aver stipulato un accordo pacifico con l’Eritrea, ponendo fine a quel conflitto. 

Oggi, però, dopo due anni pacifici, si è acceso un nuovo scontro. Il premier etiope ha limitato il potere del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF), un’organizzazione separatista di ispirazione marxista nata nel 1975. Il Tigrai fu la prima regione ad abolire la schiavitù nel 1935, subito dopo la conquista da parte dell’Italia; che attualmente comprende il 6% della popolazione nazionale.

Per circa venti anni i tigrini hanno governato l’Etiopia, fino a quando nel 2018 Abiy Ahmed Ali è stato eletto primo ministro, che si presentò come democratico e si pose notevoli obiettivi, auspicando grandi progetti. 

Da alcuni mesi i rapporti tra l’autorità centrale e il TPLF si sono notevolmente inaspriti, ciò è iniziato con il rinvio delle elezioni regionali a causa dell’emergenza sanitaria, che il Fronte liberale ha svolto nonostante il divieto da parte del governo centrale. Tuttavia, il Governo federale ha ritenuto il voto nullo, ma ad aumentare la tensione è stata la decisione di tagliare i fondi al Tigrai. Di conseguenza l’amministrazione regionale ha annunciato di non riconoscere l’autorità centrale.

Lo scontro politico tra i due governi è sfociato in una vera e propria guerra civile, tanto che, durante la notte tra il 3 e il 4 Novembre, il premier etiope Abiy Ahmed Ali ha dichiarato l’inizio delle operazioni militari in Tigrai. Sono migliaia le vittime del conflitto e altrettanti sono i profughi che cercano di scappare dai bombardamenti aerei e che camminano per giorni verso altri Stati, dove la maggior parte dei deceduti appartengono all’etnia Amhara.

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Le persone sono costrette a scappare, senza cibo e senza coperte, dalla loro patria per salvarsi dal conflitto e sfavoriti nella fuga, anche, dal Covid-19.

L’obiettivo del primo ministro etiope è quello di indebolire la potenza dell’esercito militare del Tigrai e, nonostante la regione possa contare su 250 mila soldati, il conflitto si prevede violento e sanguinoso.

La guerra civile che inizialmente riguardava soltanto l’Etiopia ha coinvolto anche l’Eritrea: la notte tra il 14 e il 15 novembre, infatti, i tigrini hanno lanciato dei missili su Asmara. Altre sei esplosioni nella capitale dell’Eritrea si sarebbero verificate la notte del 28 novembre.

Il governo etiope ha lanciato un ultimatum ai tigrini, concedendo loro 72 ore per arrendersi, ma questi hanno deciso di non cedere alle intimidazioni.

L’esercito etiope procede dunque con l’offensiva “finale”, che consiste nella conquista di Makallè, capoluogo della regione del Tigrai. Questa “ultima” mossa è stata annunciata da Abiy Ahmed, il quale ha affermato che la città non sarà danneggiata gravemente e che saranno messi al sicuro tutti i civili innocenti.

Nonostante le parole del primo ministro, si teme lo scoppio di una vera e propria guerra.

Attualmente sono oltre 40 mila le persone rifugiatesi in Sudan e migliaia quelle uccise.

L’ONU riferisce l’allarme inviato dall’UNICEF, che chiede di preservare i 2,3 milioni di bambini, esposti a notevoli rischi e che necessitano di cure e di assistenza immediata.

Nonostante le varie assicurazioni da parte del governo etiope di proteggere i civili, notizie di arresti, di discriminazioni e di violenze continuano ad aumentare, facendo temere una vera e propria crisi umanitaria.

EVO MORALES E LE POLITICHE BOLIVIANE

Francesco Ferorelli
IID

Evo Morales è stato il primo presidente Indios a governare la Bolivia, paese fortemente colpito da divari economici schiaccianti. Questi si riflettono direttamente nella composizione etnica del paese. Infatti, i Mestizo e gli Indios sono perlopiù analfabeti e poveri, mentre i ricchi in gran parte appartengono a lunghe dinastie Europee, nate dopo l'invasione spagnola nel '500 guidata da Pizarro, de Almagro e de Luque.

La situazione Sud-Americana non risulta sconosciuta alla storia, difatti gli Indios sono stati oppressi per secoli. A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta la Bolivia fu governata da un sanguinario regime militare pienamente sostenuto dagli USA, che, reclutato il criminale di guerra tedesco Klaus Barbie, uccise in terra straniera, per organizzare una rivolta con gli Indios contro il regime, il rivoluzionario Ernesto "Che" Guevara. La dittatura militare para-fascista terminò alla fine degli anni Ottanta, grazie alla pressione della comunità internazionale, al declino dell'economia e al crollo dei prezzi delle materie prime esportate.

I nuovi governi affrontarono questa crisi con programmi di austerità e forti privatizzazioni: smantellando le società pubbliche create nei decenni precedenti, mettendo all'asta concessioni minerarie per attirare capitale estero e privatizzando i servizi pubblici.

Tramite le politiche neoliberiste l'inflazione diminuì, aumentando però, il divario sociale. Qualcosa stava cambiando in Bolivia. I movimenti identitari e regionalisti, per decenni oppressi dai governi militari, ebbero una nuova spinta saldando legami tra i partiti di sinistra e gli Indios.

Evo Morales cominciò la sua carriera politica come sindacalista dei "cocaleros", attaccando il governo boliviano che, per stringere rapporti con gli Stati Uniti, cominciò una campagna di eradicazione delle coltivazioni di coca. Scalati i ranghi del sindacato, formò il MAS (movimento per il socialismo), che come obiettivi principali decantava: un’equa distribuzione delle ricchezze nel paese; la legalizzazione e la libera coltivazione delle piante di coca e la fine delle privatizzazioni. Sotto l'esempio del dittatore cileno Augusto Pinochet e della sua "Codigo de Agua", il governo boliviano spinse per la privatizzazione della distribuzione dell'acqua, generando rivolte e blocchi per tutto il paese. Queste furono guidate proprio da Morales, che nel 2002 si candidò alla presidenza, da cui ne uscì vinto ed in seguito espulso dal parlamento. L'onda di proteste non cessò e nel 2005 il governo indisse nuove elezioni che portarono alla vittoria di Morales, grazie al 53% dei voti, diventando così il primo presidente Indios del paese. Egli giunse al potere durante la "marea rossa" dei primi anni 2000, dove svariati governi con idee simili cominciarono a governare il Sud America. Il suo programma era semplice ed efficace: assottigliare le differenze acuite negli ultimi anni grazie alle politiche neoliberiste.

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Cominciò nazionalizzando i proventi delle risorse del paese, invertendo la proporzione di guadagno che le società estere incassavano per l'estrazione del gas, aumentando le tasse sugli idrocarburi da 200 milioni a circa 1,3 miliardi. Con questi fondi potenziò le infrastrutture e tramite svariati sussidi migliorò la vita della popolazione. L'analfabetismo quasi scomparve, la mortalità infantile si dimezzò, la crescita annuale del paese divenne circa del 5%, il PIL pro-capite triplicò. Ma col passare degli anni la spinta socialista di Morales si trasformò in una politica quasi centrista, che cercava, seppur invano, di coordinare lo sviluppo delle popolazioni più povere e assicurare un futuro più stabile per la classe media. Fece tutto ciò al fine di distaccarsi dalle azioni radicali dei suoi alleati Chavez e Maguro, che governavano in Venezuela.

Egli si inimicò ancor di più la classe benestante, definendo la Bolivia uno stato "pluri-nazionale", riconoscendo oltre trenta lingue ufficiali e rimuovendo lo status di religione di stato al cattolicesimo. Morales mostrò tendenze autoritarie a partire dal 2014 candidandosi e vincendo per il terzo mandato di fila. Nel 2016 il presidente socialista indisse un referendum per eliminare il limite di mandati, sancito dalla costituzione, venendo però sconfitto. Infastidito, fece ricorso al Tribunale Supremo, che però era un organo fortemente influenzato dal suo partito, la corte affermò, infatti, che il referendum era stato alterato dall'influenza degli Stati Uniti e che Morales si sarebbe potuto candidare nuovamente nel 2019, per un nuovo mandato. Lo scetticismo nei confronti del presidente aumentava. Violare il referendum lo alienò dal consenso dalla maggior parte dei progressisti del paese e le sue politiche pro-business ed economiche pragmatiche lo avevano privato di forti basi di consenso. Nel 2019 vinse nuovamente, ma questa volta l'ambiente era cambiato. Vi furono numerose proteste dominate dalla opposizione, scontri violentissimi che portarono alla morte di tre persone, ammutinamenti dell'esercito e della polizia, così da costringere Morales a scappare e a dimettersi. Nell'anno successivo, Jeanine Áñez si autoproclamò presidente a sostegno dei partiti di estrema destra, pienamente sostenuta dai militari. Dopo circa un anno, Morales tornò in Bolivia e la domenica dell’8 novembre il nuovo presidente socialista, Luis Arce, giurando ufficialmente, si insediò. Tra giubilei di piazza per il ritorno dei Masisti al potere e proteste dell'opposizione, lo sviluppo della politica boliviana resta un'incognita.

BIDEN: IL RITORNO DEL "MENO PEGGIO"

 Marcello Gemma, IIC       
                                                                         
Mariateresa Cesare, IIA

Dopo un periodo saturo di telegiornali che trasmettevano ogni tipo di notizia sulle recenti elezioni americane, occorre fare una riflessione forse già necessaria ben prima delle votazioni: è giusto vedere in Joe Biden il salvatore della democrazia? Tra i due candidati è sicuramente quello che ha fatto parlare meno di sé, trovandosi contro l'ormai ex Tycoon il quale ha sempre rappresentato il contrario del termine “sobrio”, e ovviamente chiunque sia capace di riconoscere un pazzo non ha mai sostenuto le politiche o le opinioni di Trump, ma, osservando nel dettaglio questi due personaggi, vedremo solo due facce della stessa medaglia a stelle e strisce, una medaglia velatamente o apertamente razzista, omofoba, transfobica e sessista. È facile trovare sul web video di vecchi dibattiti del neoeletto presidente risalenti alla candidatura con Obama in cui si scagliava contro la comunità lgbt e i matrimoni gay, o in cui si diceva fiero di essere sionista e amico di Netanyahu, peggior nemico dell’oppressa comunità palestinese. Non diversa è la situazione per la sua vicepresidente, Kamala Harris, i suoi anni da procuratrice generale della California (dal 2011) e membro del senato (dal 2017), infatti, ne delineano un profilo pieno di contraddizioni dal punto di vista politico. Se da un lato si è mostrata senza dubbio progressista implementando politiche volte ad ottenere una maggiore clemenza del sistema giudiziario californiano verso i reati minori, dall’altro si è fatta notare per due grandi battaglie non proprio in linea con gli ambienti più radicali del partito Democratico: quella contro i “sex workers” e quella contro la legalizzazione delle droghe leggere nello stato della California.  Solamente con questa piccola ricerca ci sorge un dubbio: come possono sostenitori di tali ideologie essere definiti di “sinistra”? La convinzione che anche negli USA esistano destra e sinistra ci arriva dalla nostra politica, nella quale le due fazioni rappresentano due ideologie contrastanti, diversa è la situazione oltreoceano: il sistema di valori americano, profondamente orientato verso destra, dalla religione alla sanità privata, rende veramente complessa la promozione di idee che per noi europei rappresentano le basi di una politica di sinistra. Chiarita tale 

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differenza tra la nostra politica e quella americana, chiariamone anche una fatale somiglianza, l'ideologia del “meno peggio”, ovvero il sacrificio del proprio volere per proteggere una società che ha bisogno di cambiare. La presidenza di Biden dovrà infatti fare fronte a una situazione catastrofica dal punto di vista sociale, climatico, economico e sanitario.

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È giusto pensare che Trump sia la persona meno adatta per questo progetto e, certo, Biden non sarà uno stinco di santo, ma è proprio qui che tocca scegliere il famoso “meno peggio”.  Mentre noi abbiamo un ventaglio di scelta, oltremare troviamo un sistema binomiale che non offre molte opzioni, in questo contesto alcuni sostenitori dei candidati democratici Bernie Sanders e Elizabeth Warren hanno deciso di farsi da parte e dare vita al movimento “Settle for Biden” (accontentarsi di Biden) consapevoli dei difetti di quest’ultimo ma ravvisando il rischio di una nuova amministrazione Trump.

Per quanto certamente migliore di quello del presidente uscente, il programma di Biden è, oltre che di dubbio orientamento politico, gravemente incompleto sotto vari punti di vista, tanto da non essere appoggiato da numerosissimi membri del partito. Forse le divergenze sono dovute al distacco generazionale o, forse, i democratici più radicali riconoscono l’idiozia di voler ritornare a un sistema e ad un America che erano già marci ben prima dell’arrivo di Trump. Trump e Biden appaiono sotto questo aspetto spaventosamente simili, entrambi troppo conservatori per essere appoggiati completamente dal loro partito, la differenza fondamentale è una: se nel 2016 il partito Repubblicano cercava di salvarsi da una spaventosa radicalizzazione che aveva la forma di un razzista arancione, è proprio verso la  radicalizzazione opposta che oggi si orientano i democratici della “nuova guardia”, denunciando gli evidenti problemi del sistema politico ed economico americano.

È quindi sbagliato affermare, frettolosamente, che il nuovo presidente sia “di sinistra”, perché semplicemente negli USA la “sinistra”, per come la intendiamo noi, non esiste. Ad esistere è soltanto una “destra” più moderata, destinata al cambiamento grazie all’avvento delle nuove generazioni sempre meno conservatrici.

USA 2020

le sfumature della polarizzazione

Vincenzo Lucci, IVE
 Fabrizio Gaeta                                         
                                     IA                                                
Giulia Sofia Caramiello 

Cosa ci dicono le elezioni presidenziali 2020 del Paese “leader” del mondo libero?

In un Paese nel quale il 98% delle preferenze si divide tra due partiti, la polarizzazione del voto è un dato di fatto. Ma questo fenomeno resta uguale nel tempo o è figlio dell’epoca a cui  appartiene?

La nostra sensazione è che la polarizzazione dell’election day 2020 e forse anche quella del 2016 siano da leggere in modo trasversale: attraverso questioni non riconducibili al classico conflitto tra opposti, ma più sottili e, verrebbe da dire, più confuse. Il 47% dei voti è andato ad un candidato che riesce prima a passare come “novità” (nonostante incarni pienamente il sistema), e poi a proporsi come anti establishment dopo quattro anni di presidenza; ci riesce cavalcando questioni identitarie che, come detto prima, non rientrano tanto nel “chi sono e cosa penso” ma nel “cosa voglio ottenere”.

La Florida è un caso di studio: Trump è riuscito, con una martellante retorica sul socialismo, a convogliare i voti dei Cubani. Fenomeni analoghi si sono verificati in altre parti del Paese, dove, nonostante le vaste minoranze rimangano per la maggior parte ad una trazione democratica, c’è comunque una percentuale rilevante che ha votato Trump, con una componente di alcuni messicani che nonostante definizioni non lusinghiere da parte del presidente come quella di “stupratori”, ha ritenuto che il repubblicano avesse condotto una politica più affine ai loro valori, come quelli di famiglia (importante la questione sull’aborto) e lavoro. È quindi come se l’interesse dell’individuo prevalesse sulla condizione generale del gruppo.

Il nocciolo della nostra analisi è questo: è impossibile cambiare l’identità di un individuo, ma lo si può convincere che al netto delle questioni identitarie e ideologiche la cosa migliore da fare sia votare l’uno o l’altro candidato, anche se non ne è pienamente convinto. Da qui nasce la cultura del “meno peggio” che porta indecisi e disinteressati ad esprimere la loro preferenza. A queste presidenziali ciò è successo da entrambe le parti, perché è pacifico affermare che il punto di forza di Biden fosse essere l’alternativa a Trump. Ma è altrettanto diffusa l’opinione che il repubblicano abbia rimontato nei sondaggi dell’ultima ora facendo leva su questioni delicate e divisive e su timori come quello suscitato in alcuni dal movimento “Black Lives Matter”. La polarizzazione non avviene più quindi attorno a temi di principio ma attorno al puro utilitarismo o al massimo alla rabbia e alla paura.

Ma allora perché continua ad esserci una distanza così ostinata tra elettorato di campagna ed elettorato di città?

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Di solito a questa domanda si risponde parlando di arretratezza culturale, maggiore tradizionalismo, più sensibilità ai temi religiosi, e tutto ciò e sicuramente giusto, ma se è vero quanto detto prima, non basta:  per spiegare questo fenomeno bisogna passare per la narrazione di sé che gli USA hanno diffuso nel mondo. Si parla di quel sogno americano che appartiene ai padri fondatori e si tramanda di generazione in generazione, radunando tutti i cittadini sotto un'unica bandiera. Un sogno che si evolve e si adatta ai tempi nelle città, più interessate da fenomeni di immigrazione e multietnicità, e che invece rimane ancorato al passato e all’impossibilità di rifuggire la retorica populista nelle zone dell’entroterra del Midwest, dove naufraga nel mare di preferenze rosse.

Altro fattore determinante nel divario tra aree metropolitane e rurali è probabilmente la popolazione giovane: in un contesto di generale maggior affluenza al voto (+11,2% rispetto al 2016), anche i giovani dopo quattro anni di discutibile amministrazione Trump si sono sentiti più coinvolti, rientrando, probabilmente, tra i fattori determinanti del successo blu. Il sostegno giovanile al candidato democratico sembra essere stato più marcato di quanto non fosse nel 2016; ciò è probabilmente dovuto ad una maggior sensibilità di questo tipo di elettorato ai temi di giustizia sociale e cambiamento climatico.

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